lunedì 6 agosto 2012

le mie radici

LE DURE RADICI


E sbatto polipi –
su gli scogli delle mie radici
schiume – come le nostre vite
pallide scivolano di fianco

su la proda pietrosa, incerte
dalle onde emergono madri.
Hanno molli i ventri tatuati.

(e urlano – dimentiche figlie
 i loro figli per piccole birbe
fra le ali dei vecchi gabbiani)

Fra le mie mani ammirano
le molli pance sbattute, e
le essenze candide cadute.

Granchi scuri di scogliera, timidi
saggiano la chiara linfa che spargo
in fessure – di questa vana moglie

chiusa – nel passato sugo d’agro
le notti condisce di vuoto e tagli
in vene piene – di bianchi abbagli

le mie giornate cucino e salo
nei vapori gli sfumati sogni
e le speranze pescate ieri
nessun ventre oggi accoglie.

G. Nigretti da Derive amare

giovedì 2 agosto 2012

inutile linguaggio

RICORDARSI DI ALLORA di Carlos Pujol

Ricordarsi di allora,
delle ferite che si conoscono a memoria,
aperte come labbra
che tacciono perché il tempo si vergogna
del suo inutile linguaggio.
Ma questa è la domanda:
con quale antico dolore dobbiamo pagare
il poco che sappiamo?

mercoledì 1 agosto 2012

in cucina assieme



STIAMOCENE UN PO’ IN CUCINA ASSIEME  di Osip Mandel’štam

Stiamocene un po' in cucina assieme;
l'aria è dolce di bianco cherosene;

un coltello tagliente e una pagnotta...
Se vuoi, prepara ben bene il fornello;

altrimenti raduna e intreccia corde:
prima dell'alba fa’ una grande sporta;

fuggiamo alla stazione, ad un binario
ove nessuno ci possa trovare.

(da Ottanta poesie - Traduzione di Nicola Crocetti)

venerdì 27 luglio 2012

La meraviglia delle nuvole

"La meraviglia sta nello scrivere, non nello scrivere la meraviglia"
Il porto di Trani

LE NUVOLE


Come sono fasulle le nuvole
– se il sole non ti abbaglia –
sembrano perfino abbaiare
a l’aria, d’una luna lontana

altre un guscio di madreperla
silenzioso, su l’onda del cielo
fanno pure una bianca spuma
di sposa, e s’involano lontano.

Leggere le mie nuvole fingono
di essere tutto – anche amore
ma poi a piombo ti cadono
addosso – e sono uragano.

G. Nigretti da Derive d'aria

lunedì 23 luglio 2012

La Chjazze du Pèsce - Trani





17 GIUGNO


Neri rondoni squassavano
le bianche terrazze in giro
giocando, il chiaro vespro
su l’odorosa Chjazze du Pèsce

i pescivendoli a voci rotte
pescavano, gli ultimi omini
smenando belle sode sardelle
e le ultime audaci seppie novelle.

In punta di piedi sorrisi, di fiato
sul limpido vetro disegnandoli
aspettavo, il tuo sempre buono
da le ombre in piazza di ritorno

sempre atteso, da quelli che avevi
oggi venduto per felini e pecorini.
...

G. Nigretti, frammento di 17 GIUGNO da Derive eretiche

giovedì 19 luglio 2012

della meraviglia

Il fine del saggio-poeta non e' la meraviglia-thauma
"la parola greca non indica solo lo stupore davanti a eventi insoliti,
ma anche lo smarrimento angosciato"
La filosofia nasce dalla meraviglia. La parola greca, che traduciamo con meraviglia, è thauma. Ma thauma starebbe a significare anzitutto l´orrore provato dinanzi a uno spettacolo angosciante. Platone dice che "la meraviglia è figlia di Iride e del Gigante Thaumante". Con thaumante abbiamo di nuovo una parola costruita su thauma. La filosofia proviene dalla paura, o, meglio, dal timore per il mondo, dal timore per il divenire del mondo, quindi dalla terrifica scoperta che ogni cosa nasce e muore, "diviene" quindi. Ma il "trauma" sarebbe all'origine, ovvero il movente profondo, anche della mitologia, della religione, della scienza stessa: modi diversi di porsi, di cercare di rispondere al turbamento provocato appunto dalla "meraviglia".

Taumaturgo. Si dice di persona (santa) che opera cose meravigliose. Viene dal greco thauma, cosa meravigliosa (affine ai verbi theàomai, vedere = cosa da vedere, e thàomai, contemplare, ammirare...) unito al sostantivo èrgon (verbo ergàzomai), lavoro, opera. Dalla medesima radice da cui viene thauma, anche lo thaumatòn, ciò che desta stupore e, per Socrate, apre alla conoscenza.

Nella parola greca "thauma" Aristotele vide la meraviglia che l´uomo ha per il mondo e che lo spingerebbe a conoscerlo, altri vedono un suo significato più originario e profondo: lo stupore attonito di fronte a ciò che è strano, imprevedibile, mostruoso. Paura esistenziale che, inevitabilmente, ci spinge al dominio,
ovvero a voler imporre un ordine nostro alle cose grandi o piccole di questo mondo e ai pensieri stessi, come rimedio.

mercoledì 18 luglio 2012

per gli antichi sedili



l'inno "Salve o Trani!" è inciso su una tavola marmorea collocata nella Villa comunale
 Salve o Trani!

Quella tua lingua di terra entro il
mare con un monastero alla punta
è come una vedetta sull’avvenire la
torre del tuo duomo si slancia nel
cielo azzurro come un ideale i due
moli del tuo porto s’incurvano come
braccia che stringono una civiltà
Il tuo orto pubblico manda un
saluto floreale all’oriente.


Il tuo popolo pulsa la terra che
non è arida se si veste di pampini i
tuoi uomini sono forti perché sono
tolleranti le tue donne ricordano
il profilo pelagico smentiscono la
leggenda della nostra inferiorità di
razza.


Salve o Trani!
Nel 1799 generasti i martiri che sui
patiboli consacrarono la libertà
dopo il 1848 empisti di galantuomini
le galere nel 1860 salvasti la
libertà irrompente da Quarto a
Marsala salve per le tue memorie
romane per le tue tavole marittime
per gli antichi sedili per la giovinezza
onde ti rimoderni nella
civiltà salve per l’avvenire
salve mater se la tua antichità
traduci in una giovinezza perfetta.


Giovanni Bovio

GIOVANNI BOVIO: giurista, filosofo e parlamentare
Il filosofo, politico, letterato Giovanni Bovio, onorato in quasi tutte le città del meridione con l'intitolazione di vie importanti o di piazze, nacque a Trani il 6 Febbraio 1837. Trascorse la sua fanciullezza e la sua giovinezza a Trani, tra le ristrettezze economiche familiari e l'insaziabile sete di sapere che lo spingeva a leggere e, grazie ad una memoria prodigiosa, ad assimilare tutti i libri che poteva, attinenti al mondo classico, umanistico e filosofico. Viveva dando lezioni private di diritto, di letteratura e di filosofia, ma, all'età di ventitrè anni, dopo la pubblicazione del "Verbo novello, sistema di filosofia universale", dovette trasferirsi a Napoli, dove ebbe come suo primo amico il venerando giurista Luigi Zuppetta.
Sotto il Ministero Minghetti, nel 1872, superando grandi ostilità e lotte acerbe, ottenne il pareggiamento della cattedra di Storia del Diritto all'Università di Napoli e nel 1875 conseguì la libera docenza nella filosofia del diritto. E' di questo periodo una sua lettera nella quale, accennando agli esami che dovette "subire" per poter continuare ad insegnare, ricorda che "se fosse stato giudice, non avrebbe approvato molti dei suoi esaminatori".
Le sue lezioni all'Università, armonico compendio di erudizione e di eloquenza, esercitavano un autentico fascino sui giovani che accorrevano in massa, anche se appartenenti ad altre facoltà universitarie, per festeggiare ed acclamare il professore dalla vita socratica. Fu di carattere adamantino, di una rettitudine intemerata che incuteva rispetto anche nei suoi avversari ideologici più accaniti e, coerente sempre con le sue idee, visse la sua vita con calore di apostolo e di nobiltà di azione.
Va sottolineato anche che forni', dalle sue opere drammatiche, soggetti per musica, e a questo proposito vanno ricordati i suoi lavori: Cristo alla festa di Purim musicato da G.Giannetti (Rio de Janero, Teatro Lirico, 16 Dic. 1905) riproposto al Vittorio Emanuele di Torino (3 dicembre 1905) e al Real Madrid (26 febbraio 19911). Scrisse ancora per il teatro Giordano Bruno, azione drammatica (1869) e le Scene Attiche de Il Socrate (Roma, 1902). Il Socrate fu dato al Teatro Comunale la sera del 12 Gennaio 1902, in serata di gala, alla presenza dell'autore in visita ufficiale a Trani. 
Il giorno prima, ne aveva diretto personalmente le prove, complimentandosi con gli interpreti. La domenica sera poi assistette dal palco reale, in compagnia del sindaco Carlo Neacha e di Ferdinando Lambert, tra le ovazioni calorose della platea. A fine rappresentazione gli fu offerto un pranzo di onore, in cui erano in 195 a sedere a tavola, fra un succedersi di brindisi a cui Bovio rispose con il suo magistrale Saluto a Trani. Dopo aver fatto trepidare l'Italia per un lungo periodo, a causa delle sue condizioni di salute, Giovanni Bovio muore a Napoli il 15 Aprile 1903.

martedì 17 luglio 2012

Vento di maestrale

DALLA SCOGLIERA


quest’anno il mare è
bianco come una puttana
su la via – d’illusi piaceri

penetro l’umido grembo
col duro tedio dell’inverno
pago, nel vuoto appena colmo
di lattea schiuma – un sorriso

lenisce la prodiga scogliera
nel sole, di ombre si allunga
di anni un soave attimo di ore
d’amore, dove le colsi il salso nettare
di questa scogliera – oggi straniera.

G. Nigretti da Derive straniere 

mercoledì 11 luglio 2012

Cinico: un mascalzone ...


Wassily Kandinsky, Isolation, 1944, olio su tavola, collezione privata
Nell’età di Socrate, un filosofo di nome Antistene diede vita a un movimento che si perpetuò in tutto lo sviluppo della cultura antica. Erano i “cinici” e incerto è se questo nome derivi dal ginnasio di Cinosarge dove si riunivano i seguaci di Antistene, dei quali il più celebre fu Diogene di Sinope, detto il Cinico o – ipotesi più suggestiva – dal loro stile di vita naturale e animalesco «a imitazione del cane» (κυνισμός, “kunismòs”). I cinici teorizzavano l’autosufficienza dello spirito e consideravano ogni bene esterno come indifferente: ne derivava un’apatia che nulla poteva smuovere, neppure i piaceri o la fatica, e una conseguente libertà di vita e di giudizio.

Questo ostentato disprezzo verso le leggi morali, i costumi, le convenienze e gli ideali ha assunto con il tempo l’accezione di un comportamento cinico, al limite della deplorazione. E questo andiamo oggi a investigare nelle parole degli scrittori. Ambrose Bierce, per esempio, nel suo Dizionario del diavolo va giù duro: “Cinico: un mascalzone la cui vista difettosa vede le cose come sono, non come dovrebbero essere”. Più tagliente e raffinato, come suo solito, Oscar Wilde, che nel Ventaglio di Lady Windermere fa affermare a un personaggio: “Che cosa è un cinico? Uno che sa il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna”. Ma un po’ cinico lo era lui stesso, tanto che nei suoi Aforismi arriva a dire “Il cinismo è l'arte di vedere le cose come sono, non come dovrebbero essere”. Indro Montanelli nell’Italia giacobina e carbonara li fotografa invece così, pensando probabilmente in particolare ai nostri connazionali: “I cinici sono tutti moralisti, e spietati per giunta”. Il critico dello spettacolo Aldo Grasso sul Corriere della Sera del 4 maggio 2010 vede la debolezza del lato negativo: “Il cinismo è la crudeltà dei delusi: non possono perdonare alla vita di aver ingannato le loro certezze”. Qualche pensiero positivo? Più che altro si situano nel territorio di penombra tra bene e male: come quello di Giovanni Soriano in Finché c’è vita non c’è speranza: “Cinismo è dare alle cose il disprezzo che meritano”. E poi Lillian Hellman nelle Piccole volpi: “Il cinismo è un modo spiacevole di dire la verità”. E ancora Jean Genet: “Cinismo è il riuscito tentativo di vedere il mondo come è realmente”. Chiudiamo con un maestro del disinganno, Emil Cioran, che così lo definisce nella Provincia dell’uomo, opera del 1973: “Cinismo: non aspettarsi da alcuno più di quanto noi stessi siamo”.
da il Canto delle sirene

martedì 3 luglio 2012

Trenta giorni

 a mio padre e mia madre

LONTANO


Ora che vi ha ricongiunti
ancora una volta, insieme
per sempre – dove siete?

in quella terra di marmi
e ombre, o in quell’aria
di lumi elettrici e di fiori

sempreverdi? di sicuro lì
dove l’inverno ricopre di
salso i corridoi e le icone

dove l’estate esala gli odori
dai fiori di plastica e stagna
l’acqua nei bei vasi d’ottone

di sicuro lì – dove mi è ignoto
d’anni l’autunno – sta in esilio
sul terzo binario della stazione

con la primavera di alici e di croci;
è rimasta quella sbiadita nel bianco
e nero di una fotografia, che ho qui

lontano – fra le amare nebbie, dove
affondo ne le mute sillabe le stagioni e
quel che resta – e ancora mi commuove.


G. Nigretti da Derive d'aria

lunedì 2 luglio 2012

Partita

PARTITA

Anche le cicale tacciono
non c’è un alito di vento
non c’è – nemmeno l’aria
ne l’aria un silenzio vuoto.

Non passa un’auto – sì una
sola – corre muta, ha fretta.
Non passa nessuno – sì una
sola – lentamente, dove va?

In questa quasi sera, d’inizio
estate, stanno tutti rinchiusi
a l’aperto, in casa; – di fuori
non c’è vita (prima dov’era?)

stanno tutti insieme a vedere la partita.
Lontano abbaia un cane – abbaio anch’io
silenzio
Spagna batte Italia quattro a zero.
Fuori è ritornato un noioso rumorio.

G. Nigretti da Derive d'aria

mercoledì 27 giugno 2012

fatto gabbiano


PESCATORE D’INGANNI

Di notte, seggo scogliere
dove i sogni s’infrangono
di ami spargo il pelago specchio
– raggi e ruggine insacco.

Dalle onde emergono stelle
e lenze donzelle slamano miraggi
di orizzonti – a piombo mi lancio
nel sogno veleggio – fatto gabbiano
nel vento di sirena m’innalza un canto
soave su vertigini m’invola – le ali
in ferale naufragio d’uragano.

G. Nigretti da Derive amate

sabato 23 giugno 2012

I poeti


'I poeti sono la coscienza repressa della società contemporanea,
e a loro è riservata la morte sociale che spetta ai diversi'

I decaduti ripercorre, e rappresenta in versi, quest’epoca nichilista e autodistruttiva. È un libro che cerca nella descrizione senza infingimenti del reale - di una società in declino e senza redenzione - una religiosità disperata, un senso che custodisca il vivere e la vita insieme. E in una civiltà senza sentimenti, il poeta urla la sua presenza.
Ed è la poesia, la risposta che esorta ad accettare la sfida del nuovo giorno, in un sacerdozio che esprime un unico pensiero: l’arte come unica fonte ed unica finalità. Ed è forse proprio per questo che Dio dà i maggiori castighi agli artisti, poiché sono quelli che più lo tentano nelle sue verità. Il metro stilistico, nell’utilizzo della scritta parola, si concentra esclusivamente su vocabili di uso comune, che inseriti nella struttura poesia perdono il significato originario per acquisirne dei nuovi, cercando di indagare le molteplici occasioni che ogni idioma mette a disposizione.
La parola, in poesia, diventa dunque una continua ricerca del polisenso, nel proposito di slegare il linguaggio omologato e conformista che la tv impone, e cercando di tendere all’estremo l’arco espressivo di ogni singola, conosciuta, parola. Anche l’utilizzo dello spazio fisico della pagina bianca non è casuale: le pagine sono quadri, e le parole colori.
Quello che mi premeva nella creazione poetica, nella catarsi che porta a concepire il verso, è la tensione emotiva, di parole levigate come coltelli. Sentire che la pagina vibra alla lettura dei versi. La speranza era di svelare con ogni singolo componimento un tassello dal mosaico delle verità; al termine di questa esperienza esistenziale e artistica che ha generato I Decaduti, mi sono accorto che ogni poesia non fa altro che aggiungere una nuova tessera a quel mosaico; in un rimando continuo dove si incrociano le varie sensibilità artistiche, e dove ciascuno di noi trova la propria univoca traiettoria vitale ed espressiva, pur attraversando inevitabilmente altri percorsi che incrociano il nostro divenire.
Ed è questo il senso profondo del nostro discorrere, essere unici e composti simultaneamente da tutto quello che ci ha preceduto. Siffatta intuizione manca alla società contemporanea, scissa da se stessa, impegnata solo a produrre, per poi consumare, in una nevrotica coazione a ripetere. La raccolta raffigura le sfaccettature di questa drammatica limitazione che vive l’uomo odierno, che impone un individuo svuotato e senza memoria, senza tradizione, per omologarlo e considerarlo unicamente come potenziale acquirente di merci.
Quelle merci che non sono più un mezzo, ma un fine; perfino aggettivi da aggiungere al proprio Io. Ne I Decaduti, il poeta, coscienza repressa della società moderna, di fronte a questa prospettiva, dimostra un diniego emozionale, poiché percepita come antisociale e disumana.

Denudati perché
vagano
su decomposti mosaici.

Giorni,
si rincorrono,
nell’immoto divenire
di un uguale sguardo.

Ingabbiato,
nello zoo della città,
mi reincarno
ad ogni morte,

Esangue.

(Giuseppe Aletti)

venerdì 22 giugno 2012

presto scomparirà


AL CREPUSCOLO di Pär Lagerkvist

È al crepuscolo che ci si isola,
alla caduta del sole.


È allora che si abbandona tutto.
Il pensiero si chiude nella sua tenda di ragnatela
e il cuore dimentica i motivi della sua angoscia.
Il viandante del deserto abbandona il suo campo,
che presto scomparirà sotto la sabbia,
e prosegue il suo viaggio nella quiete della notte,
guidato da enigmatiche stelle.

domenica 17 giugno 2012

17 giugno

17 GIUGNO

Neri rondoni squassavano
le bianche terrazze in giro
giocando, il chiaro vespro
su l’odorosa Chjazze du Pèsce

i pescivendoli a voci rotte
pescavano, gli ultimi omini
smenando belle sode sardelle
e le ultime audaci seppie novelle.

In punta di piedi sorrisi, di fiato
sul limpido vetro disegnandoli
aspettavo, il tuo sempre buono
da le ombre in piazza di ritorno

sempre atteso, da quelli che avevi
oggi venduto per felini e pecorini.
Eri il pane antico su la bianca terrazza
de le serene serrate notti colore lontananza.

In nero rondone muto mutò
e agile in giro girava su le raggiate ali corvine
e per viuzze e palazzi portavi bolli e serti
di cozze nere pescate a corta lama aperte

e crude mangiate nel nostro ultimo incontro
primo nei tuoi occhi buoni di bianca morte umidi
e in questo stretto addio padre filiale m’affacciavo
e liberi volavano gialli canarini canterini da la terrazza

oggi di nero asfaltata a opachi specchi spenti
m’addormo, fra le ombre vuote di vino o di mute
passanti sotto e sotto crolli le terrazze sono crollate
disfatte da sigillate inferriate di blu asfalto ghiacciate.

(Polvere calda sfuma
il lontano corpo gravido
e dipinge i suoi lisci occhi neri
e veri e mai indiani e padani.

Oggi la rimpiango
dentro il fango già rappreso ieri
con le ultime bianche perle vere
accolte fra le sue socchiuse mani.)

E il nero rondone andò e alto veleggia ancora
e iniziò l’inferriata salda a fiorire di secchi serti

e venne Pandora con Caino e tutta gramigna seminò
e venne Brillina con pacchi e velli e donò un regalino
e venne Riccina con stille e stalle e lanciò un sassino
e venne Biondina con tacchi e spille e volle il librettino
e venne Leonina con tonno e mozzarelle e lasciò un pelettino


e giunse Giugno con le secche piogge e indietro impermeabili porta
e indosso commosso il sommo vuoto di questo ultimo annoso giorno.

G. Nigretti da Derive eretiche