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venerdì 6 settembre 2013
giovedì 19 luglio 2012
della meraviglia
Il fine del saggio-poeta non e' la meraviglia-thauma
"la parola greca non indica solo lo stupore davanti a eventi insoliti,
ma anche lo smarrimento angosciato"
"la parola greca non indica solo lo stupore davanti a eventi insoliti,
ma anche lo smarrimento angosciato"
La filosofia nasce dalla meraviglia. La parola greca, che traduciamo con meraviglia, è thauma. Ma thauma starebbe a significare anzitutto l´orrore provato dinanzi a uno spettacolo angosciante. Platone dice che "la meraviglia è figlia di Iride e del Gigante Thaumante". Con thaumante abbiamo di nuovo una parola costruita su thauma. La filosofia proviene dalla paura, o, meglio, dal timore per il mondo, dal timore per il divenire del mondo, quindi dalla terrifica scoperta che ogni cosa nasce e muore, "diviene" quindi. Ma il "trauma" sarebbe all'origine, ovvero il movente profondo, anche della mitologia, della religione, della scienza stessa: modi diversi di porsi, di cercare di rispondere al turbamento provocato appunto dalla "meraviglia".
Taumaturgo. Si dice di persona (santa) che opera cose meravigliose. Viene dal greco thauma, cosa meravigliosa (affine ai verbi theàomai, vedere = cosa da vedere, e thàomai, contemplare, ammirare...) unito al sostantivo èrgon (verbo ergàzomai), lavoro, opera. Dalla medesima radice da cui viene thauma, anche lo thaumatòn, ciò che desta stupore e, per Socrate, apre alla conoscenza.
Nella parola greca "thauma" Aristotele vide la meraviglia che l´uomo ha per il mondo e che lo spingerebbe a conoscerlo, altri vedono un suo significato più originario e profondo: lo stupore attonito di fronte a ciò che è strano, imprevedibile, mostruoso. Paura esistenziale che, inevitabilmente, ci spinge al dominio, ovvero a voler imporre un ordine nostro alle cose grandi o piccole di questo mondo e ai pensieri stessi, come rimedio.
Taumaturgo. Si dice di persona (santa) che opera cose meravigliose. Viene dal greco thauma, cosa meravigliosa (affine ai verbi theàomai, vedere = cosa da vedere, e thàomai, contemplare, ammirare...) unito al sostantivo èrgon (verbo ergàzomai), lavoro, opera. Dalla medesima radice da cui viene thauma, anche lo thaumatòn, ciò che desta stupore e, per Socrate, apre alla conoscenza.
Nella parola greca "thauma" Aristotele vide la meraviglia che l´uomo ha per il mondo e che lo spingerebbe a conoscerlo, altri vedono un suo significato più originario e profondo: lo stupore attonito di fronte a ciò che è strano, imprevedibile, mostruoso. Paura esistenziale che, inevitabilmente, ci spinge al dominio, ovvero a voler imporre un ordine nostro alle cose grandi o piccole di questo mondo e ai pensieri stessi, come rimedio.
mercoledì 11 luglio 2012
Cinico: un mascalzone ...
Nell’età di Socrate, un filosofo di nome Antistene diede vita a un movimento che si perpetuò in tutto lo sviluppo della cultura antica. Erano i “cinici” e incerto è se questo nome derivi dal ginnasio di Cinosarge dove si riunivano i seguaci di Antistene, dei quali il più celebre fu Diogene di Sinope, detto il Cinico o – ipotesi più suggestiva – dal loro stile di vita naturale e animalesco «a imitazione del cane» (κυνισμός, “kunismòs”). I cinici teorizzavano l’autosufficienza dello spirito e consideravano ogni bene esterno come indifferente: ne derivava un’apatia che nulla poteva smuovere, neppure i piaceri o la fatica, e una conseguente libertà di vita e di giudizio.
Questo ostentato disprezzo verso le leggi morali, i costumi, le convenienze e gli ideali ha assunto con il tempo l’accezione di un comportamento cinico, al limite della deplorazione. E questo andiamo oggi a investigare nelle parole degli scrittori. Ambrose Bierce, per esempio, nel suo Dizionario del diavolo va giù duro: “Cinico: un mascalzone la cui vista difettosa vede le cose come sono, non come dovrebbero essere”. Più tagliente e raffinato, come suo solito, Oscar Wilde, che nel Ventaglio di Lady Windermere fa affermare a un personaggio: “Che cosa è un cinico? Uno che sa il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna”. Ma un po’ cinico lo era lui stesso, tanto che nei suoi Aforismi arriva a dire “Il cinismo è l'arte di vedere le cose come sono, non come dovrebbero essere”. Indro Montanelli nell’Italia giacobina e carbonara li fotografa invece così, pensando probabilmente in particolare ai nostri connazionali: “I cinici sono tutti moralisti, e spietati per giunta”. Il critico dello spettacolo Aldo Grasso sul Corriere della Sera del 4 maggio 2010 vede la debolezza del lato negativo: “Il cinismo è la crudeltà dei delusi: non possono perdonare alla vita di aver ingannato le loro certezze”. Qualche pensiero positivo? Più che altro si situano nel territorio di penombra tra bene e male: come quello di Giovanni Soriano in Finché c’è vita non c’è speranza: “Cinismo è dare alle cose il disprezzo che meritano”. E poi Lillian Hellman nelle Piccole volpi: “Il cinismo è un modo spiacevole di dire la verità”. E ancora Jean Genet: “Cinismo è il riuscito tentativo di vedere il mondo come è realmente”. Chiudiamo con un maestro del disinganno, Emil Cioran, che così lo definisce nella Provincia dell’uomo, opera del 1973: “Cinismo: non aspettarsi da alcuno più di quanto noi stessi siamo”.
da il Canto delle sirene
sabato 23 giugno 2012
I poeti
'I poeti sono la coscienza repressa della società contemporanea,
e a loro è riservata la morte sociale che spetta ai diversi'
I decaduti ripercorre, e rappresenta in versi, quest’epoca nichilista e autodistruttiva. È un libro che cerca nella descrizione senza infingimenti del reale - di una società in declino e senza redenzione - una religiosità disperata, un senso che custodisca il vivere e la vita insieme. E in una civiltà senza sentimenti, il poeta urla la sua presenza.
Ed è la poesia, la risposta che esorta ad accettare la sfida del nuovo giorno, in un sacerdozio che esprime un unico pensiero: l’arte come unica fonte ed unica finalità. Ed è forse proprio per questo che Dio dà i maggiori castighi agli artisti, poiché sono quelli che più lo tentano nelle sue verità. Il metro stilistico, nell’utilizzo della scritta parola, si concentra esclusivamente su vocabili di uso comune, che inseriti nella struttura poesia perdono il significato originario per acquisirne dei nuovi, cercando di indagare le molteplici occasioni che ogni idioma mette a disposizione.
La parola, in poesia, diventa dunque una continua ricerca del polisenso, nel proposito di slegare il linguaggio omologato e conformista che la tv impone, e cercando di tendere all’estremo l’arco espressivo di ogni singola, conosciuta, parola. Anche l’utilizzo dello spazio fisico della pagina bianca non è casuale: le pagine sono quadri, e le parole colori.
Quello che mi premeva nella creazione poetica, nella catarsi che porta a concepire il verso, è la tensione emotiva, di parole levigate come coltelli. Sentire che la pagina vibra alla lettura dei versi. La speranza era di svelare con ogni singolo componimento un tassello dal mosaico delle verità; al termine di questa esperienza esistenziale e artistica che ha generato I Decaduti, mi sono accorto che ogni poesia non fa altro che aggiungere una nuova tessera a quel mosaico; in un rimando continuo dove si incrociano le varie sensibilità artistiche, e dove ciascuno di noi trova la propria univoca traiettoria vitale ed espressiva, pur attraversando inevitabilmente altri percorsi che incrociano il nostro divenire.
Ed è questo il senso profondo del nostro discorrere, essere unici e composti simultaneamente da tutto quello che ci ha preceduto. Siffatta intuizione manca alla società contemporanea, scissa da se stessa, impegnata solo a produrre, per poi consumare, in una nevrotica coazione a ripetere. La raccolta raffigura le sfaccettature di questa drammatica limitazione che vive l’uomo odierno, che impone un individuo svuotato e senza memoria, senza tradizione, per omologarlo e considerarlo unicamente come potenziale acquirente di merci.
Quelle merci che non sono più un mezzo, ma un fine; perfino aggettivi da aggiungere al proprio Io. Ne I Decaduti, il poeta, coscienza repressa della società moderna, di fronte a questa prospettiva, dimostra un diniego emozionale, poiché percepita come antisociale e disumana.
Denudati perché
vagano
su decomposti mosaici.
vagano
su decomposti mosaici.
Giorni,
si rincorrono,
nell’immoto divenire
di un uguale sguardo.
si rincorrono,
nell’immoto divenire
di un uguale sguardo.
Ingabbiato,
nello zoo della città,
mi reincarno
ad ogni morte,
nello zoo della città,
mi reincarno
ad ogni morte,
Esangue.
(Giuseppe Aletti)
giovedì 26 aprile 2012
IL RITORNO DI NARCISO
G. Nigretti, Il ritorno di Narciso - 1994
cm 49,5x59,5 specchiante cornice dipinta, testa in terracotta, conchiglia, materiali vari
….
Il ritorno di Narciso non è il suo venire di nuovo alla presenza dopo una fase di latenza, non è il suo essere di nuovo qui dopo un periodo di lontananza. Che Narciso ri-torna significa che egli ruota attorno al proprio asse, tra l’antico e il moderno, tra la caduta nello specchio e la fuga dello sguardo. Il ri-torno di Narciso è il ritorno all’antico, grande specchio della natura, all’interno del quale il moderno Narciso colloca il suo piccolo specchio artificiale.
…
Più niente da vedere, a questo punto: ciò che si apre è la dimensione dell’ascolto ...
G. Ferraboschi, Il ritorno di Narciso, 1994
SONETTI A ORFEO, II, III
Specchi: mai ancora nessuno ha descritto sapendo quale sia la vostra essenza. Voi come fitti di fori i crivelli colmi interstizi del tempo. Voi che dissipate il vuoto della sala al tramonto, come boschi, sconfinati... E cervo ramoso il lampadario attraversa il vostro varco impenetrabile. Talvolta siete colmi di pitture. E pare che alcune trapassino in voi, altre le respingete con timore. Ma la più bella resterà. Fin quando nelle sue guance non dischiuse penetri il chiaro dissolto Narciso. Rainer Maria Rilke (1875-1926)
da Sonetti a Orfeo, 1922 – Traduzione di Massimo Bacigalupo
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