G. Nigretti da Dell'andar straniero, 2011 |
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giovedì 18 febbraio 2021
mercoledì 11 marzo 2020
su barche di carta
sul pelago confine e senza un lemma
è qui giunto e svelto sta già andando
per voce cercare in valle d’incanto o
su terre dove il sole non è spento
dal muto morire del giorno stanco
– quando dall’ade l’inverata appare –
a chi da naufrago torna a maree:
così è l’orfeo che a derive porta
parole pesanti su barche di carta.
G. Nigretti da Sul confine pesante 2018
La poesia DAL MUTO MORIRE è una summa nella quale convergono i temi e i motivi che permeano la produzione di Nigretti. Sono presenti il naufragio, il dolore, la perdita, riletti con la lente del mito di Orfeo, che si intrecciano con l’aspirazione alla poesia, il cui slancio, salvifico, è rifratto nell’impalpabile, sfuggente e irrisoria, parola di carta.
La lirica ci porta ai confini estremi del mare, dove il naufrago è giunto, solo, atterrito e muto, dopo aver lottato con le insidie del mare periglioso. Egli subito abbandona l’onda crestata di schiume paurose e posa lo sguardo su terre sconosciute, su paesaggi inabitati dai quali risalire a orme di vita, e decifrare una rotta da immaginari portolani. Andare “su terre dove il sole non è spento” è alleviare la stanchezza mortale dell’urto impari con gli elementi, la paura, il senso della fine.
Il suo viaggio è come quello di Orfeo, che attraversa il silenzio degli inferi per riportare alla luce la parola che salva.
Ma egli non trova che l’ombra del vero e il silente simulacro di “lei così amata”, che ormai ha lasciato per sempre le dimensioni umane del tempo e del sentimento (Ormai non era più la donna bionda… , Rilke). Il suo ritorno nell’ade è per Orfeo varcare il limite del dolore e del pianto perenne, condannato, senza amore, a una “vita vicaria”, insondabile destino toccato in sorte all’uomo.
Simile alla parabola enunciata nel mito è l’esperienza del poeta: con un carico di parole divenute “pesanti”, su un vascello fantasma, il naufrago torna alle derive sconfinate della voce di carta.
E la voce è l’anima (Aristotele, De anima) che chiede salvezza.
Ornella Cazzador
domenica 15 dicembre 2019
per la sirena
senza amore un fiore riapre il cuore
sull’arso pietrame fra ossa di mare
è bianco al sole sasso della sera
dove l’ombra nello sguardo riaffiora
danzando fra le plastiche di scorie
riportate da onde come memorie:
– sulle carte di smagliate frontiere –
langue e sanguina la mano protesa
per la sirena che all’amo s’è presa.
G. Nigretti da Derive di ombre 2018/19
giovedì 2 maggio 2019
molle stella
C’ERA UNA VOLTA
Questa carta nuda è la pelle tua
– o Dolle! musa già di carne muta –
che da gemme la mano rigenera
eguale a molle stella la immagina
quando il sole si assonna sulla sera
e il mare canta su scogliere chiare
fra onde ricolme di miele a fontane:
c’era una volta una voce di opale
che lì si disciolse in carne di sale.
G. Nigretti da Derive in carne, 2019
giovedì 1 novembre 2018
da onde di mare
L’AUTUNNO
Riverbera a sera la pietra a sfera e
sulla via curva di morte rame
vela l’ombra di voce che ci spaura
l’autunno – del nostro già fermo andare –
al buio mondo che nel sonno dona
lo stame: a quel che resta di parole
cadute lontane da onde di mare.
Sul confine ritorna il giro del sole e
da voragine chiama nera immagine.
G. Nigretti, da Derive di ombre, 2018
giovedì 13 aprile 2017
tu sapessi
CON QUESTO NOME di V. Bodini
Amore, cosa chiamo con questo nome
io non sono più certo di sapere.
Se ricerco nel fondo ove s'immerse
il tuo quieto naufragio,
fra i denti degli squali, di quelle sabbie gelosi,
presto riemerge il mio pensiero nudo
al visibile giorno,
con le braccia ferite e qualche filo
d'alga sul corpo, o i ciechi segni d'una medusa.
Ma a sera, se col passo delle fiere
che convengono caute presso lo stagno,
fra gli azzurri veleni che mesce il cielo,
in me come a tremante vetro s'affacciano
le antiche colpe, o errori, o la presente
solitudine, oh allora, come sei
tu stranamente viva sulle mie labbra,
e che stupiti altari la mia voce
odono che si scolpa nelle tenebre
a mia insaputa: O amore, tu sapessi…
giovedì 23 marzo 2017
assetato
PASSEGGIATA di Richard Berengarten
Re sole, di gote roseo, conio sovrano del giorno,
mi tocchi, e la mia pelle tramuta in cornea,
il mio dorso in nervo ottico, il mio corpo trema
metà abbagliato dalla pozza d’oro che riversi
su questo mare e in questa città, e sono accecato.
Qui un tempo s’ergevano – e so che ancora s’ergono –
filari di case e strade di un’altra città,
non questa che hai totalmente trasformato.
Camminiamo lungo il molo. La notte
barche di pescatori si accingono a partire
motori sbuffanti, luci di paraffina nelle prue,
e tutta la città è fuori per la passeggiata,
amanti abbracciati, e ragazzi spavaldi,
madri e padri, bambini che mangiano il gelato,
anziani che guardano dai tavolini dei caffè sui marciapiedi,
e oscuranti colline che si muovono strette, come armenti.
Dolce bagliore della sera, spiegata su colline e baia,
ora il tuo braccio sfiora il mio, come incidentalmente
il tocco di questa giovane donna che mi cammina a lato
coi fianchi pesanti, i passi piccoli e le movenze sinuose
i capelli corvini ravvolti e il suo sorriso bruno oliva.
Ti bevo, luce scintillante, come vino, come musica,
come i suoi avi ti bevvero per millenni.
Città porosa, il nome della donna è Elefterìa,
e sebbene le tue cicatrici siano chiazze grigie nei suoi occhi,
in quest’ora in cui la luce e le sue inflessioni
giocano sottilmente sul suo viso come voci e canti,
suo è l’antico diritto di calpestare questo molo
come strumento e guardiano della tua luce
raccogliendolo nelle coppe delle sue pupille,
e sua è la preziosa libertà di guidarti, come fa una ballerina.
Amata sera, luce antica di millenni,
voce limpida di cantante, amabile come questa donna,
come non posso adorare la grazia che imprimi
su questa città e questa gente, un calco
che modella tutto ciò che tocca, il mondo intero?
Se non tuo cittadino, son diventato tuo schiavo.
E assetato dal berti tutta, riempirei
ogni poro col tuo splendore, sua libertà.
... ora che cade la sera ...
Re sole, di gote roseo, conio sovrano del giorno,
mi tocchi, e la mia pelle tramuta in cornea,
il mio dorso in nervo ottico, il mio corpo trema
metà abbagliato dalla pozza d’oro che riversi
su questo mare e in questa città, e sono accecato.
Qui un tempo s’ergevano – e so che ancora s’ergono –
filari di case e strade di un’altra città,
non questa che hai totalmente trasformato.
Camminiamo lungo il molo. La notte
barche di pescatori si accingono a partire
motori sbuffanti, luci di paraffina nelle prue,
e tutta la città è fuori per la passeggiata,
amanti abbracciati, e ragazzi spavaldi,
madri e padri, bambini che mangiano il gelato,
anziani che guardano dai tavolini dei caffè sui marciapiedi,
e oscuranti colline che si muovono strette, come armenti.
Dolce bagliore della sera, spiegata su colline e baia,
ora il tuo braccio sfiora il mio, come incidentalmente
il tocco di questa giovane donna che mi cammina a lato
coi fianchi pesanti, i passi piccoli e le movenze sinuose
i capelli corvini ravvolti e il suo sorriso bruno oliva.
Ti bevo, luce scintillante, come vino, come musica,
come i suoi avi ti bevvero per millenni.
Città porosa, il nome della donna è Elefterìa,
e sebbene le tue cicatrici siano chiazze grigie nei suoi occhi,
in quest’ora in cui la luce e le sue inflessioni
giocano sottilmente sul suo viso come voci e canti,
suo è l’antico diritto di calpestare questo molo
come strumento e guardiano della tua luce
raccogliendolo nelle coppe delle sue pupille,
e sua è la preziosa libertà di guidarti, come fa una ballerina.
Amata sera, luce antica di millenni,
voce limpida di cantante, amabile come questa donna,
come non posso adorare la grazia che imprimi
su questa città e questa gente, un calco
che modella tutto ciò che tocca, il mondo intero?
Se non tuo cittadino, son diventato tuo schiavo.
E assetato dal berti tutta, riempirei
ogni poro col tuo splendore, sua libertà.
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mercoledì 1 marzo 2017
fu così
ACCELERATO di E. Montale
Fu così, com’è il brivido
pungente che trascorre
i sobborghi e solleva
alle aste delle torri
la cenere del giorno,
com’è il soffio
piovorno che ripete
tra le sbarre l’assalto
ai salici reclini -
fu così e fu tumulto nella dura
oscurità che rompe
qualche foro d’azzurro finché lenta
appaia la ninfale
Entella che sommessa
rifluisce dai cieli dell’infanzia
oltre il futuro -
poi vennero altri liti, mutò il vento,
crebbe il bucato ai fili, uomini ancora
uscirono all’aperto, nuovi nidi
turbarono le gronde -
fu così,
rispondi?
venerdì 1 gennaio 2016
giorni pieni
DI CARTA
ora che tutto t’è stato detto
“novo intatto sentier segnami,
o Musa” tu che già mi hai
di carta aperto giorni pieni
– di ombre senza più nome –
lungo la finale via albale,
donami ora in verbo reale
a bellezza di cielo con voce di mare:
il fulgore di salda terra d’amore.
ora che tutto t’è stato detto
“novo intatto sentier segnami,
o Musa” tu che già mi hai
di carta aperto giorni pieni
– di ombre senza più nome –
lungo la finale via albale,
donami ora in verbo reale
a bellezza di cielo con voce di mare:
il fulgore di salda terra d’amore.
G. Nigretti da Derive di carta 2015
venerdì 4 settembre 2015
domenica 16 agosto 2015
tardo pelago
LACERE ICONE
D’albe e di ieri nel tardo pelago
di carne lo sguardo e il fiato tuo
avrei colmato. Ora a voce vaga
dal pianale di carta emergono
e nei dedali di lacere icone
l’oscura lingua mi naufraga
verso quella voragine larga
questa carcassa viaggia
giorno pietoso l’affossa
nel profondissimo nulla
amari specchi l’avvolgono
con mendicanti parole
scendo fra l’infrante memorie
di macerie indugiano stagioni
dove l’ultimo sole s’affoga
ti velano in lacere icone.
D’albe e di ieri nel tardo pelago
di carne lo sguardo e il fiato tuo
avrei colmato. Ora a voce vaga
dal pianale di carta emergono
e nei dedali di lacere icone
l’oscura lingua mi naufraga
verso quella voragine larga
questa carcassa viaggia
giorno pietoso l’affossa
nel profondissimo nulla
amari specchi l’avvolgono
con mendicanti parole
scendo fra l’infrante memorie
di macerie indugiano stagioni
dove l’ultimo sole s’affoga
ti velano in lacere icone.
G. Nigretti da Derive eretiche 2009
domenica 9 agosto 2015
nell'essere
da Lasciami, non trattenermi di M. Luzi
Non perderti, non allontanarti dal pensiero,
non uscire dal desiderio
tanto da non potervi ritornare
e non provarne
mutuamente tu ed io alcuna pena.
Fa’ che questo non si avveri.
Non lasciarmi immaginare
un tempo
in cui sia fatta aliena,
musa in ansia, fuggitiva
trattenuta appena.
Resta
nella adiacenza dell’umano
se non proprio del suo male
almeno del suo dolore,
ti prego,
forse non dovrei, ti porta
il tuo respiro
dov’è necessario,
lo voglia o non lo voglia, per te andare.
Va’, però non ti eclissare
nel nulla immemoriale,
sia nell’essere certo e incancellabile
che nell’essere tu eri, tu nell’essere sei stata.
Non perderti, non allontanarti dal pensiero,
non uscire dal desiderio
tanto da non potervi ritornare
e non provarne
mutuamente tu ed io alcuna pena.
Fa’ che questo non si avveri.
Non lasciarmi immaginare
un tempo
in cui sia fatta aliena,
musa in ansia, fuggitiva
trattenuta appena.
Resta
nella adiacenza dell’umano
se non proprio del suo male
almeno del suo dolore,
ti prego,
forse non dovrei, ti porta
il tuo respiro
dov’è necessario,
lo voglia o non lo voglia, per te andare.
Va’, però non ti eclissare
nel nulla immemoriale,
sia nell’essere certo e incancellabile
che nell’essere tu eri, tu nell’essere sei stata.
domenica 26 luglio 2015
vago cavo
DI ARDITI GIORNI
gravido, è corsa gravosa parlare
quindi lemmi per squilli vi stilo
quando serpi spingono spilli
pendono pensieri privi di filo
su specchi deserti di occhi
e di voce, l’ombre vitree
di arditi giorni aleggiano
in oasi di piacere canino
dal vago cavo le varco e
verso scabbia pioggia e
arido d’amore declino
nostalgie di gerbido solco
penzolando zoppe rime
a infante seme sorrido
errando da nero migrante
nei vostri lacerati peluche
fugaci sostegni rammendo
dagli strappi rapidi passano
vuoti sciacalli riciclati
come vacche rumano fantasie nane e voi
di arditi giorni dimentiche
insieme sputate nere le ultime perle vere.
gravido, è corsa gravosa parlare
quindi lemmi per squilli vi stilo
quando serpi spingono spilli
pendono pensieri privi di filo
su specchi deserti di occhi
e di voce, l’ombre vitree
di arditi giorni aleggiano
in oasi di piacere canino
dal vago cavo le varco e
verso scabbia pioggia e
arido d’amore declino
nostalgie di gerbido solco
penzolando zoppe rime
a infante seme sorrido
errando da nero migrante
nei vostri lacerati peluche
fugaci sostegni rammendo
dagli strappi rapidi passano
vuoti sciacalli riciclati
come vacche rumano fantasie nane e voi
di arditi giorni dimentiche
insieme sputate nere le ultime perle vere.
G. Nigretti da Derive eretiche 2009
mercoledì 15 luglio 2015
senza fine
AMANTI di Mario Luzi
Che mi riserva rivederti, amore,
quale viaggio t’hanno dato i venti?
L’oscuro avvolge questi giorni chiari,
circola forse in questa luce densa
qui dove a macchie dondolanti o ferme
filtra oro ed il vino matura.
Spicco dal cielo questo frutto splendido,
chiudo gli occhi su quel che porta seco,
o lo stare sulle spine
o il dirsi addio a cuore gonfio,
questo tempo nel tempo senza fine.
sabato 4 luglio 2015
pesante discende
DI OBLIO
tutta gruma sta la cera
ben bagnata è la cima
a prora – fra le onde
voci di nome memoria
l’andare via già dirada
da chine nere di vita
le colline non più supine
su quest’onda errante
una quiete pesante discende
di oblio gli orizzonti dirama
verso un domani di passato
a vele strappate andiamo.
G. Nigretti da Derive quiete 2010/11
tutta gruma sta la cera
ben bagnata è la cima
a prora – fra le onde
voci di nome memoria
l’andare via già dirada
da chine nere di vita
le colline non più supine
su quest’onda errante
una quiete pesante discende
di oblio gli orizzonti dirama
verso un domani di passato
a vele strappate andiamo.
G. Nigretti da Derive quiete 2010/11
giovedì 18 giugno 2015
da un-bel-po’
AL DECOLLO
quella notte ero un po’ morto
nel poliptòto controllo
e la mano dall’ipàllage flagellata
nel fridZi2dEr d’amore giaceva
tutta caglia d’aferesi e deiezioni
già indicibili anacoluti per il decollare
a viva carne dagli ossimòri varchi
la fioraia infilava le occasioni
ad ogni persona la macellaia pesava
il pleonasmo attraversare
e la sarta già tagliava i vecchi
bagagli a mano e tutte le sincope passioni
non più diastole dissi che era presto
per essere sfogliato
negli specchi di carta senza le prefazioni
ma mi ero, da un-bel-po’, quasi traslato.
G. Nigretti da Derive d'orfeo 2013
mercoledì 17 giugno 2015
dì già d'anni
17 GIUGNO
Squassavano
rondoni neri
le terrazze
bianche in giro
giocando
il vespro chiaro
sulla Chjazze
du Pèsce
i
pescivendoli a voci rotte
pescavano
gli ultimi omini
smenando
belle sode sardelle e
le ultime
audaci seppie novelle.
In punta
di piedi sorrisi di fiato
sul
limpido vetro disegnandoli
aspettavo
il sempre tuo buono
dall’ombra
in piazza di ritorno
senza
fine già atteso era da quelli
che vendevi
con felini e pecorini.
Eri il Pane
Antico – sulla bianca terrazza
delle
serene notti di colorblu lontananza.
Poi in
nero rondone muto mutò
e in
giro agile su ali raggiate girava
e per
viuzze e palazzi bolli e serti portavi
di nere cozze
pescate con lama corta aperte
e crude
mangiate in quell’ultimo nostro incontro
primo negli
occhi tuoi buoni e a nera morte umidi
e in
questo stretto addio padre filiale m’affacciavo
e liberi
canarini canterini volavano – dalla terrazza
oggi a
nero già asfaltata dietro opachi vetri spenti
m’addormo,
fra le ombre vuote di vino o di mute
passanti
sotto, e sotto crolli le terrazze son crollate
disfatte
da sigillate inferriate di bluasfalto ghiacciate.
(e polvere calda sfuma
il lontano corpo
gravido
e dipinge i suoi lisci
occhi neri
e veri e mai
indiani e padani
e oggi la rimpiango
dentro il fango già
rappreso ieri
colle ultime perle vere
che in socchiusi palmi accolse)
E il rondone
nero andò – e alto veleggia ancora
e
l’inferriata salda iniziò di serti secchi a sfiorire
e venne Pandora con
Caino e tutta gramigna seminò
e venne Brillina
con sacchi e velli e donò un regalino
e venne Dolorina
con stille e stalle e lanciò un sassino
e venne Nanina con tacchi
e santi e volle il librettino
e venne Ilioina con
lingue e pianti e un pelino lasciò
e giunse
Giugno con secco rovescio
e incerato
bluvecchio indietro porta
e indosso
commosso il vuoto sommo
di quest’annoso
dì già d’anni grumoso.G. Nigretti da Derive eretiche 2009
mercoledì 18 febbraio 2015
dentro il verso
ALTRA ARTE POETICA di Franco Fortini
Esiste, nella poesia, una possibilità
che, se una volta ha ferito
chi la scrive o la legge, non darà
più requie, come un motivo
semi modulato semi tradito
può tormentare una memoria. E io che scrivo
so ch'è un senso diverso
che può darsi all'identico
so che qui ferma dentro il verso resta
la parola che senti o leggi
e insieme vola via
dove tu non sei più, dove neppure
pensi di poter giungere, e cominciano
altre montagne, invece, pianure ansiose, fiumi
come hai visti viaggiando dagli aerei tremanti.
Città impetuose qui, sotto le immobili
parole scritte tue.
Esiste, nella poesia, una possibilità
che, se una volta ha ferito
chi la scrive o la legge, non darà
più requie, come un motivo
semi modulato semi tradito
può tormentare una memoria. E io che scrivo
so ch'è un senso diverso
che può darsi all'identico
so che qui ferma dentro il verso resta
la parola che senti o leggi
e insieme vola via
dove tu non sei più, dove neppure
pensi di poter giungere, e cominciano
altre montagne, invece, pianure ansiose, fiumi
come hai visti viaggiando dagli aerei tremanti.
Città impetuose qui, sotto le immobili
parole scritte tue.
lunedì 15 dicembre 2014
non tace
DI UMANO TEMPO
quel che permane e senza nome scende
su carte per derive già saliva
– nera parola oggi lo scrive da sola –
e quel che sul velo segna era già di voi
voce, come quella che in sogno di casa
qui giace d’eretico amore arsa
e di umano tempo andato non tace.
Uguale è questa primavera: eco di rose
in carne tracima fiamma di voce reale.
G. Nigretti da Derive nel vento 2014
domenica 30 novembre 2014
nausiche
AUSPICI
I
Scompigliate Nausiche
scambieranno amore
per un foglio di strabiche parole?
II
Navigando le derive bifronti
in qual tempo muteranno
dei tramonti gli
spigolosi orizzonti?
III
Sulla sponda d’alto
azzurro
sguardo di chi scioglierà
l’incognita sirena in
un sussurro?
IV
Chi tesserà i granelli persi
Nel frutto anfratto
dal fuoco fatuo disfatto?
Del bel grembo sinuoso
nella sera mattutina
come in sogno di
germoglio
l’acerbo corimbo
raccogli
nel vorticoso abbaglio.
G. Nigretti da Derive d'amore 2001/2004
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