GIORNI DI PAROLE
a pezzi di passato giacciono
nel biancastro pelago liquido
cercavano (un lemma di vita?)
in un fremito d’ali straniero
l’ultima voce di rosa sbiadita
è già secca come questa carta
bianca d’ossa nel sole pesante
di grassa maceria e vuote ore
la memoria su ci smena parole
di questo lèmure tempo
che a voragine ci aliena
l’anima?
– un venticello di parole morte.
G. Nigretti da Derive straniere 2011
martedì 8 agosto 2017
mercoledì 2 agosto 2017
nel fresco nasturzio
IL DORMIENTE NELLA VALLE di A. Rimbaud
È un buco verde dove canta un fiume
Appendendo follemente all'erba i suoi stracci
D'argento; dove il sole, dalla fiera montagna
Risplende: è una piccola valle spumeggiante di raggi.
Un giovane soldato, la bocca aperta, il capo nudo,
E la nuca immersa nel fresco nasturzio azzurro
Dorme; è steso nell'erba, sotto le nuvole,
Pallido nel suo verde letto dove la luce piove.
Ha i piedi fra i gladioli, dorme. Sorridendo come
Sorriderebbe un bimbo malato, fa una dormita:
Natura, cullalo tiepidamente: ha freddo.
I profumi non fanno fremere le sue narici;
Lui dorme nel sole, la mano sul petto
Tranquillo. Ha due buchi rossi sul lato destro.
È un buco verde dove canta un fiume
Appendendo follemente all'erba i suoi stracci
D'argento; dove il sole, dalla fiera montagna
Risplende: è una piccola valle spumeggiante di raggi.
Un giovane soldato, la bocca aperta, il capo nudo,
E la nuca immersa nel fresco nasturzio azzurro
Dorme; è steso nell'erba, sotto le nuvole,
Pallido nel suo verde letto dove la luce piove.
Ha i piedi fra i gladioli, dorme. Sorridendo come
Sorriderebbe un bimbo malato, fa una dormita:
Natura, cullalo tiepidamente: ha freddo.
I profumi non fanno fremere le sue narici;
Lui dorme nel sole, la mano sul petto
Tranquillo. Ha due buchi rossi sul lato destro.
sabato 29 luglio 2017
laida donna
UNA CAROGNA di C. Baudelaire
Ricordi, anima mia, quel che vedemmo
un bel mattino dolce d'estate
dietro quel sentiero? una carogna infame,
su un letto sparso di sassi:
zampe all'aria, come una laida donna,
ardente e trasudante veleni,
spalancava il ventre indifferente e cinico
tra tante esalazioni.
Batteva il sole su quel putridume
come per cuocerlo a puntino,
e ridare così centuplicato alla Natura
quel che lei aveva messo insieme.
E il cielo guardava quella gran carcassa
che si dilatava come un fiore.
Che fetore immondo! Temevi
di svenire là sull'erba.
Come ronzavano le mosche su quel putrido ventre!
e come sbucavano a battaglioni
nere larve! colavano come denso liquido
lungo quei brandelli vivi.
Scendevano e salivano come un’onda,
o brulicando s’avventavano;
sembrava che quel corpo, gonfiato da un respiro vago,
si moltiplicasse in tante vite.
Di lì sorgeva una strana musica
come l’acqua corrente e il vento,
o il grano che agita e rigira ritmicamente
nel suo ventilabro chi lo vaglia.
Le forme si cancellavano riducendosi a puro sogno:
schizzo, lento a compiersi,
sulla tela dimenticata che l’artista
condurrà a termine a memoria.
Dietro le rocce una inquieta cagna
ci guardava con irato occhio,
spiando il momento di riprendere allo scheletro
i brandelli che erano rimasti.
-E tu? Anche tu un giorno sarai quel letamaio,
quella peste orrenda,
stella dei miei occhi, sole della mia natura,
tu, mio angelo e mia passione!
Sì, anche tu sarai così, regina delle grazie,
dopo gli estremi sacramenti,
quando sotto l’erba e le piante grasse
ammuffirai tra le ossa.
E allora, mia bellezza, di’ pure ai vermi,
che ti mangeranno di baci,
che ho conservato la forma e la divina essenza
dei miei amori decomposti!
martedì 11 luglio 2017
dal mare
LE GRANDI NOTTI D'ESTATE di A. Gatto
Le grandi notti d’estate
che nulla muove oltre il chiaro
filtro dei baci, il tuo volto
un sogno nelle mie mani.
Lontana come i tuoi occhi
tu sei venuta dal mare,
dal vento che pare l’anima.
E baci perdutamente
sino a che l’arida bocca
come la notte è dischiusa,
portata via dal suo soffio.
Tu vivi allora, tu vivi,
il sogno ch’esisti è vero.
Da quanto t’ho cercata.
Ti stringo per dirti che i sogni
son belli come il tuo volto,
lontani come i tuoi occhi.
E il bacio che cerco è l’anima.
venerdì 30 giugno 2017
dall'erto muro
IN LIMINE di E. Montale
Godi se il vento ch’entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquario.
Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell’eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.
Un rovello è di qua dall’erto muro.
Se procedi t’imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.
Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato, – ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…
sabato 17 giugno 2017
lenze donzelle
PESCATORE D’INGANNI
Di notte sillabo scogliere
dove le voci s’infrangono
spargo di noi il pelago piano e
squame di colmo iato insacco
sul rigo fiacco di carta e pelle
da lemmi all’infinito affiorano
abbagli e canti di lenze donzelle
già sveglio da luoghi di pelago
mi meno – fatto gabbiano veleggio
su apice astrale di segno morgano
verbale vertigine prueggio
lontano – su vocali sirene
verso predicato d’uragano.
G. Nigretti da Derive deserte 1994/01
venerdì 2 giugno 2017
la mano
A VISO DISTESO
Noi che come i morti viviamo
in un mondo di notte strano e
senza dubbio altero pensiamo
che sia quello più del dì il vero
sperando poi di ritrovarlo intero
– come la mela che in eden seduce –
dove l’innocente eva è la mano:
che scende e spenge la luce letale
a viso disteso in sogno immortale.
G. Nigretti da Derive di luce 2017
lunedì 22 maggio 2017
la luce mente
IL FUOCO E IL BUIO di E. Montale
Qualche volta la polvere da sparo
non prende fuoco per umidità,
altre volte s'accende senza il fiammifero
o l'acciarino.
Basterebbe il tascabile briquet
se ci fosse una goccia di benzina.
E infine non occorre fuoco affatto,
anzi un buon sottozero tiene a freno
la tediosa bisava, l'Ispirazione.
Non era troppo arzilla giorni fa
ma incerottava bene le sue rughe.
Ora pare nascosta tra le pieghe
della tenda e ha vergogna di se stessa.
Troppe volte ha mentito, ora può scendere
sulla pagina il buio il vuoto il niente.
Di questo puoi fidarti amico scriba.
Puoi credere nel buio quando la luce mente.
martedì 25 aprile 2017
su chi resta
STANZE di E. Montale
Ricerco invano il punto onde si mosse
il sangue che ti nutre, interminato
respingersi di cerchi oltre lo spazio
breve dei giorni umani,
che ti rese presente in uno strazio
d’agonie che non sai, viva in un putre
padule d’astro inabissato; ed ora
è linfa che disegna le tue mani,
ti batte ai polsi inavvertita e il volto
t’infiamma o discolora.
Pur la rete minuta dei tuoi nervi
rammenta un poco questo suo viaggio
e se gli occhi ti scopro li consuma
un fervore coperto da un passaggio
turbinoso di spuma ch’or s’infitta
ora si frange, e tu lo senti ai rombi
delle tempie vanir nella tua vita
come si rompe a volte nel silenzio
d’una piazza assopita
un volo strepitoso di colombi.
In te converge, ignara, una raggèra
di fili; e certo alcuno d’essi apparve
ad altri: e fu chi abbrividì la sera
percosso da una candida ala in fuga,
e fu chi vide vagabonde larve
dove altri scorse fanciullette a sciami,
o scoperse, qual lampo che dirami,
nel sereno una ruga e l’urto delle
leve del mondo apparse da uno strappo
dell’azzurro l’avvolse, lamentoso.
In te m’appare un’ultima corolla
di cenere leggera che non dura
ma sfioccata precipita. Voluta,
disvoluta è così la tua natura.
Tocchi il segno, travàlichi. Oh il ronzìo
dell’ arco ch’è scoccato, il solco che ara
il flutto e si rinchiude! Ed ora sale
l’ultima bolla in su. La dannazione
è forse questa vaneggiante amara
oscurità che scende su chi resta.
giovedì 13 aprile 2017
tu sapessi
CON QUESTO NOME di V. Bodini
Amore, cosa chiamo con questo nome
io non sono più certo di sapere.
Se ricerco nel fondo ove s'immerse
il tuo quieto naufragio,
fra i denti degli squali, di quelle sabbie gelosi,
presto riemerge il mio pensiero nudo
al visibile giorno,
con le braccia ferite e qualche filo
d'alga sul corpo, o i ciechi segni d'una medusa.
Ma a sera, se col passo delle fiere
che convengono caute presso lo stagno,
fra gli azzurri veleni che mesce il cielo,
in me come a tremante vetro s'affacciano
le antiche colpe, o errori, o la presente
solitudine, oh allora, come sei
tu stranamente viva sulle mie labbra,
e che stupiti altari la mia voce
odono che si scolpa nelle tenebre
a mia insaputa: O amore, tu sapessi…
venerdì 31 marzo 2017
per un dì
D’ANDATO MARZO
è qui passato un nugolo di ore e
di foglie morte da quel passare
– la luce d’assorte soglie –:
con lo sguardo dell’andare, o
con ferma parola di stare
in spenta forra ad aspettare
d’andato marzo primavera
e quel che ora ci resta è la sola
poesiola, per un dì che s’invola.
G. Nigretti da Derive di luce 2017
è qui passato un nugolo di ore e
di foglie morte da quel passare
– la luce d’assorte soglie –:
con lo sguardo dell’andare, o
con ferma parola di stare
in spenta forra ad aspettare
d’andato marzo primavera
e quel che ora ci resta è la sola
poesiola, per un dì che s’invola.
G. Nigretti da Derive di luce 2017
giovedì 30 marzo 2017
o mondo
"CHE IL PARLAR DELLA TERRA INTENDA ALMENO" GIORNATA MONDIALE DELLA POESIA Padova Zubar di Palazzo Zukermann |
se non fossi tu, oòh mondo! di verso
tondo – ma di lungo eguale ad un rigo:
sempre al tuo brigo non gireremmo
attorno. Forse per librarci appena
– da guitta rima che c’incatena –
sempre di schiena per derive andiamo
a fondo – se ossi rimando di nostri ali
nel già rotondo rimenare dei passi
cali a carte menando massi reali.
G. Nigretti da Derive di carta 2015
LUNA ESTIVA PIENA
La Pienaluna disse al Poeta:
“Nell’oscuro del mondo la voce mia è di sole
la tua è un lacero sudario per parole morte
un desolato calvario di sillabe storte…
e per aver luce la bolletta devi pagare”
Il Poeta rispose alla Pienaluna:
“Nel silenzio d’ogni novilunio porto la voce
l’urlo muto di chi cercandoti è già caduto
su questo oscuro andare di orme sole…
e con te e le parole saldo metà bolletta”
G. Nigretti da Derive di aria 2012
giovedì 23 marzo 2017
assetato
PASSEGGIATA di Richard Berengarten
Re sole, di gote roseo, conio sovrano del giorno,
mi tocchi, e la mia pelle tramuta in cornea,
il mio dorso in nervo ottico, il mio corpo trema
metà abbagliato dalla pozza d’oro che riversi
su questo mare e in questa città, e sono accecato.
Qui un tempo s’ergevano – e so che ancora s’ergono –
filari di case e strade di un’altra città,
non questa che hai totalmente trasformato.
Camminiamo lungo il molo. La notte
barche di pescatori si accingono a partire
motori sbuffanti, luci di paraffina nelle prue,
e tutta la città è fuori per la passeggiata,
amanti abbracciati, e ragazzi spavaldi,
madri e padri, bambini che mangiano il gelato,
anziani che guardano dai tavolini dei caffè sui marciapiedi,
e oscuranti colline che si muovono strette, come armenti.
Dolce bagliore della sera, spiegata su colline e baia,
ora il tuo braccio sfiora il mio, come incidentalmente
il tocco di questa giovane donna che mi cammina a lato
coi fianchi pesanti, i passi piccoli e le movenze sinuose
i capelli corvini ravvolti e il suo sorriso bruno oliva.
Ti bevo, luce scintillante, come vino, come musica,
come i suoi avi ti bevvero per millenni.
Città porosa, il nome della donna è Elefterìa,
e sebbene le tue cicatrici siano chiazze grigie nei suoi occhi,
in quest’ora in cui la luce e le sue inflessioni
giocano sottilmente sul suo viso come voci e canti,
suo è l’antico diritto di calpestare questo molo
come strumento e guardiano della tua luce
raccogliendolo nelle coppe delle sue pupille,
e sua è la preziosa libertà di guidarti, come fa una ballerina.
Amata sera, luce antica di millenni,
voce limpida di cantante, amabile come questa donna,
come non posso adorare la grazia che imprimi
su questa città e questa gente, un calco
che modella tutto ciò che tocca, il mondo intero?
Se non tuo cittadino, son diventato tuo schiavo.
E assetato dal berti tutta, riempirei
ogni poro col tuo splendore, sua libertà.
... ora che cade la sera ...
Re sole, di gote roseo, conio sovrano del giorno,
mi tocchi, e la mia pelle tramuta in cornea,
il mio dorso in nervo ottico, il mio corpo trema
metà abbagliato dalla pozza d’oro che riversi
su questo mare e in questa città, e sono accecato.
Qui un tempo s’ergevano – e so che ancora s’ergono –
filari di case e strade di un’altra città,
non questa che hai totalmente trasformato.
Camminiamo lungo il molo. La notte
barche di pescatori si accingono a partire
motori sbuffanti, luci di paraffina nelle prue,
e tutta la città è fuori per la passeggiata,
amanti abbracciati, e ragazzi spavaldi,
madri e padri, bambini che mangiano il gelato,
anziani che guardano dai tavolini dei caffè sui marciapiedi,
e oscuranti colline che si muovono strette, come armenti.
Dolce bagliore della sera, spiegata su colline e baia,
ora il tuo braccio sfiora il mio, come incidentalmente
il tocco di questa giovane donna che mi cammina a lato
coi fianchi pesanti, i passi piccoli e le movenze sinuose
i capelli corvini ravvolti e il suo sorriso bruno oliva.
Ti bevo, luce scintillante, come vino, come musica,
come i suoi avi ti bevvero per millenni.
Città porosa, il nome della donna è Elefterìa,
e sebbene le tue cicatrici siano chiazze grigie nei suoi occhi,
in quest’ora in cui la luce e le sue inflessioni
giocano sottilmente sul suo viso come voci e canti,
suo è l’antico diritto di calpestare questo molo
come strumento e guardiano della tua luce
raccogliendolo nelle coppe delle sue pupille,
e sua è la preziosa libertà di guidarti, come fa una ballerina.
Amata sera, luce antica di millenni,
voce limpida di cantante, amabile come questa donna,
come non posso adorare la grazia che imprimi
su questa città e questa gente, un calco
che modella tutto ciò che tocca, il mondo intero?
Se non tuo cittadino, son diventato tuo schiavo.
E assetato dal berti tutta, riempirei
ogni poro col tuo splendore, sua libertà.
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lunedì 20 marzo 2017
cava parusia
I SANDALI
Furono presi per l’andare solo e
di cava parusia al baio mare:
ma ebbero verbo nel latteo buio
di quella corsia di chirurgia;
e là – pur se corto di voce e carte –
fu eguale a quell’aereo tumulto
dell’orfeo stolto al paruto volto
di ieri, già lumera d’amor straniero
come l'astro spento che vaga in cielo.
G. Nigretti da Derive di luce 2017
giovedì 16 marzo 2017
al limbo
LA VITA IN VERSI DI G. Giudici
Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, nè potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli astanti s’affacciano
al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.
Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.
martedì 7 marzo 2017
la vita è
SUL BIANCO PIANO
Quando, senza gesto d’alcuna mano,
per faccende già di carta noi saremo
sfaccendati, e quella fiamma che muta
danza – lungo la combusta corsia
bianca – senza screzio e né armonia:
forse allora la nostra reale forma
che ci condanna, d’ombra sarà orma.
“La vita è una donna che danza”
e la Morte il cavaliere che guarda.
G. Nigretti da Derive di carta 2015
mercoledì 1 marzo 2017
fu così
ACCELERATO di E. Montale
Fu così, com’è il brivido
pungente che trascorre
i sobborghi e solleva
alle aste delle torri
la cenere del giorno,
com’è il soffio
piovorno che ripete
tra le sbarre l’assalto
ai salici reclini -
fu così e fu tumulto nella dura
oscurità che rompe
qualche foro d’azzurro finché lenta
appaia la ninfale
Entella che sommessa
rifluisce dai cieli dell’infanzia
oltre il futuro -
poi vennero altri liti, mutò il vento,
crebbe il bucato ai fili, uomini ancora
uscirono all’aperto, nuovi nidi
turbarono le gronde -
fu così,
rispondi?
martedì 14 febbraio 2017
orfea
NEL SONNO
passar per fosse d’uman discese
e l'ombra d’albe persa vedere
umana: – dell’ade vano orfea
sposa che qui rimase tu non sei –.
Fra soglie cave è la visione
sul velo fatuo a buie caverne
che le quiete spoglie confonde
come la pietra sull’acque ferme
un passo silente il sonno fende.
G. Nigretti da Derive di pietra 2016
venerdì 10 febbraio 2017
d'acque
TU CHE ERI
su terra d'oriente dormiente
guerriero di guerra prigioniero
quando non ero di carne ancora
libero in assenza l’essere era?
e se sussisteva – con voce vera
alcuno lo dirà –: ora che son qui
visco e straniero su questa galera
d’anime già morte a volte scende
un pietrisco d’acque che ci desta.
G. Nigretti da Derive di pietra 2016
domenica 5 febbraio 2017
questo mio sasso
PAROLE (DOPO L’ESODO) DELL’ULTIMO DELLA MOGLIA
di Giorgio Caproni
Chi sia stato il primo, non
è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti
han preso la stessa via.
Ora non c’è più nessuno.
La mia
casa è la sola
abitata.
Son vecchio.
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?
Meglio – lo so – è ch’io vada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.
La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte direi, se anch’essa
– da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.
Aspetto
E ascolto.
(L’acqua,
da quanti milioni d’anni, l’acqua,
ha questo suono
sulle sue pietre?)
Mi sento
perso nel tempo.
Fuori
dal tempo, forse.
Ma sono
con me stesso. Non voglio
lasciar me stesso – uscire
da me stesso come,
la notte, dal sotterraneo
il grillotalpa in cerca
d’altro buio.
Il trifoglio
della città è troppo
fitto. Io son già cieco.
Ma qui vedo. Parlo.
Qui dialogo. Io
qui mi rispondo e ho il mio
interlocutore. Non voglio
murarlo nel silenzio sordo
d’un frastuono senz’ombra
d’anima. Di parole
senza più anima.
Certo
(è il vento degli anni ch’entra
nella mente e ne turba
le foglie) a volte
il cuore mi balza in gola se penso
a quant’ho perso. A tutta
la gaia consorteria
di ieri. Agli abbracci. Gli schiaffi.
Alle matte risate,
la sera, all’osteria
dietro alle donne. Alte
da spaccar le vetrate.
Ma non m’arrendo. Ancora
non ho perso me stesso.
Non sono, con me stesso,
ancora solo.
E solo
quando sarò così solo
da non aver più nemmeno
me stesso per compagnia,
allora prenderò anch’io la mia
decisione.
Staccherò
dal muro la lanterna,
un’alba, e dirò addio al vuoto.
A passo a passo
Scenderò nel vallone.
Ma anche allora, in nome
di che, e dove
troverò un senso (che altri,
pare, non han trovato),
lasciato questo mio sasso?
di Giorgio Caproni
Chi sia stato il primo, non
è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti
han preso la stessa via.
Ora non c’è più nessuno.
La mia
casa è la sola
abitata.
Son vecchio.
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?
Meglio – lo so – è ch’io vada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.
La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte direi, se anch’essa
– da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.
Aspetto
E ascolto.
(L’acqua,
da quanti milioni d’anni, l’acqua,
ha questo suono
sulle sue pietre?)
Mi sento
perso nel tempo.
Fuori
dal tempo, forse.
Ma sono
con me stesso. Non voglio
lasciar me stesso – uscire
da me stesso come,
la notte, dal sotterraneo
il grillotalpa in cerca
d’altro buio.
Il trifoglio
della città è troppo
fitto. Io son già cieco.
Ma qui vedo. Parlo.
Qui dialogo. Io
qui mi rispondo e ho il mio
interlocutore. Non voglio
murarlo nel silenzio sordo
d’un frastuono senz’ombra
d’anima. Di parole
senza più anima.
Certo
(è il vento degli anni ch’entra
nella mente e ne turba
le foglie) a volte
il cuore mi balza in gola se penso
a quant’ho perso. A tutta
la gaia consorteria
di ieri. Agli abbracci. Gli schiaffi.
Alle matte risate,
la sera, all’osteria
dietro alle donne. Alte
da spaccar le vetrate.
Ma non m’arrendo. Ancora
non ho perso me stesso.
Non sono, con me stesso,
ancora solo.
E solo
quando sarò così solo
da non aver più nemmeno
me stesso per compagnia,
allora prenderò anch’io la mia
decisione.
Staccherò
dal muro la lanterna,
un’alba, e dirò addio al vuoto.
A passo a passo
Scenderò nel vallone.
Ma anche allora, in nome
di che, e dove
troverò un senso (che altri,
pare, non han trovato),
lasciato questo mio sasso?
mercoledì 11 gennaio 2017
soto que atrae
ORILLAS DE TU VIENTRE di Miguel Hernández
¿Qué exaltaré en la tierra que no sea algo tuyo?
A mi lecho de ausente me echo como a una cruz
de solitarias lunas del deseo, y exalto la orilla de tu vientre.
Clavellina del valle que provocan tus piernas.
Granada que ha rasgado de plenitud su boca.
Trémula zarzamora suavemente dentada
donde vivo arrojado.
Arrojado y fugaz como el pez generoso,
ansioso de que el agua, la lenta acción del agua
lo devaste: sepulte su decisión eléctrica
de fértiles relámpagos.
Aún me estremece el choque primero de los dos;
cuando hicimos pedazos la luna a dentelladas,
impulsamos las sábanas a un abril de amapolas,
nos inspiraba el mar.
Soto que atrae, umbría de vello casi en llamas,
dentellada tenaz que siento en lo más hondo,
vertiginoso abismo que me recoge, loco
de la lúcida muerte.
Túnel por el que a ciegas me aferro a tus entrañas.
Recóndito lucero tras una madreselva
hacia donde la espuma se agolpa, arrebatada
del íntimo destino.
En ti tiene el oasis su más ansiado huerto:
el clavel y el jazmín se entrelazan, se ahogan.
De ti son tantos siglos de muerte, de locura
como te han sucedido.
Corazón de la tierra, centro del universo,
todo se atorbellina con afán de satélite
en torno a ti, pupila del sol que te entreabres
en la flor del manzano.
Ventana que da al mar, a una diáfana muerte
cada vez más profunda, más azul y anchurosa.
Su hálito de infinito propaga los espacios
entre tú y yo y el fuego.
Trágame, leve hoyo donde avanzo y me entierro.
La losa que me cubra sea tu vientre leve,
la madera tu carne, la bóveda tu ombligo,
la eternidad la orilla.
En ti me precipito como en la inmensidad
de un mediodía claro de sangre submarina,
mientras el delirante hoyo se hunde en el mar,
y el clamor se hace hombre.
Por ti logro en tu centro la libertad del astro.
En ti nos acoplamos como dos eslabones,
tú poseedora y yo. Y así somos cadena:
mortalmente abrazados.
domenica 1 gennaio 2017
deserti di occhi
DI ARDITI GIORNI
gravido, è corsa gravosa parlare
quindi lemmi per squilli vi stilo
quando serpi spingono spilli
pendono pensieri privi di filo
su specchi deserti di occhi
e di voce, l’ombre vitree
di arditi giorni aleggiano
in oasi di piacere canino
dal vago cavo le varco e
verso scabbia pioggia e
arido d’amore declino
nostalgie di gerbido solco
penzolando zoppe rime
a infante seme sorrido
errando da nero migrante
nei vostri lacerati peluche
fugaci sostegni rammendo
dagli strappi rapidi passano
vuoti sciacalli riciclati
come vacche rumano fantasie nane e voi
di arditi giorni dimentiche
insieme sputate nere le ultime perle vere.
G. Nigretti da Derive eretiche 2009
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