DAL MARE MUTO Ora che fra le onde non più ti porgo di stelle d’oro e miele il bel dono quel che spargo è solo questo suono: – di sassi senza memoria di sale – che dal mare muto e ora lontano ancora accanto si slarga piano all'eguale gorgo che non scorgo sullo scoglio dalle scorie scosso dove il naufragar serale albergo.
LA BICICLETTA di G. Pascoli Mi parve di scorgere un mare dorato di tremule messi. Un battito . . . Vidi un filare di neri cipressi. Mi parve di fendere il pianto d'un lungo corteo di dolore. Un palpito . . . M'erano accanto le nozze e l'amore. dlin . . . dlin . . . II Ancora echeggiavano i gridi dell'innominabile folla; che udivo stridire gli acrìdi su l'umida zolla. Mi disse parole sue brevi qualcuno che arava nel piano: tu, quando risposi, tenevi la falce alla mano. Io dissi un'alata parola, fuggevole vergine, a te; la intese una vecchia che sola parlava con sè. dlin . . . dlin . . . III Mia terra, mia labile strada, sei tu che trascorri o son io ? Che importa? Ch'io venga o tu vada, non è che un addio! Ma bello è quest'impeto d'ala, ma grata è l'ebbrezza del giorno. Pur dolce è il riposo . . . Già cala la notte: io ritorno. La piccola lampada brilla per mezzo all'oscura città. Più lenta la piccola squilla dà un palpito, e va. . . dlin... dlin...
L'ULTIMO VIAGGIO - LE SIRENE di G. Pascoli Indi più lungi navigò, più triste. E stando a poppa il vecchio Eroe guardava scuro verso la terra de’ Ciclopi, e vide dal cocuzzolo selvaggio del monte, che in disparte era degli altri, levarsi su nel roseo cielo un fumo, tenue, leggiero, quale esce su l’alba dal fuoco che al pastore arse la notte. Ma i remiganti curvi sopra i remi vedeano, sì, nel violaceo mare lunghe tremare l’ombre dei Ciclopi fermi sul lido come ispidi monti. E il cuore intanto ad Odisseo vegliardo squittiva dentro, come cane in sogno: Il mio sogno non era altro che sogno; e vento e fumo. Ma sol buono è il vero. E gli sovvenne delle due Sirene. C’era un prato di fiori in mezzo al mare. Nella gran calma le ascoltò cantare: Ferma la nave! Odi le due Sirene ch’hanno la voce come è dolce il miele; ché niuno passa su la nave nera che non si fermi ad ascoltarci appena, e non ci ascolta, che non goda al canto, né se ne va senza saper più tanto: ché noi sappiamo tutto quanto avviene sopra la terra dove è tanta gente! Gli sovveniva, e ripensò che Circe gl’invidiasse ciò che solo è bello: saper le cose. E ciò dovea la Maga dalle molt’erbe, in mezzo alle sue belve. Ma l’uomo eretto, ch’ha il pensier dal cielo, dovea fermarsi, udire, anche se l’ossa aveano poi da biancheggiar nel prato, e raggrinzarsi intorno lor la pelle. Passare ei non doveva oltre, se anco gli si vietava riveder la moglie e il caro figlio e la sua patria terra. E ai vecchi curvi il vecchio Eroe parlò: Uomini, andiamo a ciò che solo è bene: a udire il canto delle due Sirene. Io voglio udirlo, eretto su la nave, né già legato con le funi ignave: libero! alzando su la ciurma anela la testa bianca come bianca vela; e tutto quanto nella terra avviene saper dal labbro delle due Sirene. Disse, e ne punse ai remiganti il cuore, che seduti coi remi battean l’acqua, saper volendo ciò che avviene in terra: se avea fruttato la sassosa vigna, se la vacca avea fatto, se il vicino aveva d’orzo più raccolto o meno, e che facea la fida moglie allora, se andava al fonte, se filava in casa.
LA SERA DEL DI’ DI FESTA di G. Leopardi Dolce e chiara è la notte e senza vento, e questa sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna. O donna mia, già tace ogni sentiero, e pei balconi rara traluce la notturna lampa: tu dormi, ché t’accolse agevol sonno nelle tue chete stanze; e non ti morde cura nessuna; e già non sai né pensi quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno appare in vista, a salutar m’affaccio, e l’antica natura onnipossente, che mi fece all’affanno. – A te la speme nego, mi disse, anche la speme,; e d’altro non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. – Questo dì fu solenne; or da’ trastulli prendi riposo; e forse ti rimembra in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti piacquero a te: non io, non già ch’io speri, al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo quanto a viver mi resti, e qui per terra mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi in così verde etate! Ahi, per la via odo non lunghe il solitario canto dell’artigian, che riede a tarda notte, dopo i sollazzi, al suo povero ostello; e fieramente mi stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito il dì festivo, ed al festivo il giorno volgar succede, e se ne porta il tempo ogni umano accidente. Or dov’è il suono di que’ popoli antichi? Or dov’è il grido de’ nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi e il fragorìo che n’andò per la terra e l’oceàno? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando s’aspetta bramosamente il dì festivo, or poscia ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, premea le piume; ed alla tarda notte un canto che s’udia per li sentieri lontanando morire a poco a poco già similmente mi stringeva il core.
17 GIUGNO Squassavano rondoni neri le terrazze bianche in giro giocando il vespro chiaro sulla Chjazze du Pèsce i pescivendoli a voci rotte pescavano gli ultimi omini smenando belle sode sardelle e le ultime audaci seppie novelle. In punta di piedi sorrisi di fiato sul limpido vetro disegnandoli aspettavo il sempre tuo buono dall’ombra in piazza di ritorno senza fine atteso era già da quelli che vendevi con felini e pecorini. Eri il Pane Antico – sulla bianca terrazza delle serene notti di colorblu lontananza. Poi in nero rondone muto mutò e in giro agile su ali raggiate girava e per viuzze e palazzi bolli e serti portavi di nere cozze pescate con corta lama aperte e crude mangiate in quell’ultimo nostro incontro primo negli occhi tuoi buoni e a nera morte umidi e in questo stretto addio padre filiale m’affacciavo e liberi canarini canterini volavano – dalla terrazza oggi a nero asfaltata già dietro opachi vetri spenti m’addormo, fra le ombre vuote di vino o di mute passanti sotto, e sotto crolli le terrazze son crollate disfatte da sigillate inferriate di bluasfalto ghiacciate. (e polvere calida sfuma il lontano corpo gravido e dipinge i suoi lisci occhi neri e veri e mai indiani e padani e oggi la rimpiango dentro il fango già rappreso ieri colle ultime perle vere che in socchiusi palmi accolse) E il rondone nero andò – e alto veleggia ancora e l’inferriata salda iniziò di serti secchi a sfiorire e venne Pandora con Caino e tutta gramigna seminò e venne Brillina con sacchi e velli e donò un regalino e venne Dolorina con stille e stalle e lanciò un sassino e venne Nanina con tacchi e santi e volle il librettino e venne Ilioina con lingue e pianti e un pelino lasciò e giunse Giugno con rovescio secco e incerato bluvecchio addosso porta e commosso indosso il sommo vuoto dell’annoso giorno di anni già stecco. G. Nigretti da Derive eretiche 2009
ALLA LUNA di Giacomo Leopardi O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge l'anno, sovra questo colle Io venia pien d'angoscia a rimirarti: E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparia, che travagliosa Era mia vita: ed è, nè cangia stile, O mia diletta luna. E pur mi giova La ricordanza, e il noverar l'etate Del mio dolore. Oh come grato occorre Nel tempo giovanil, quando ancor lungo La speme e breve ha la memoria il corso, Il rimembrar delle passate cose, Ancor che triste, e che l'affanno duri!
GLI ALBERI di Yves Bonnefoy Guardavamo i nostri alberi, era dall’alto della terrazza che ci fu cara, il sole si teneva vicino noi quella volta ancora ma ritirandosi, ospite silenzioso sulla soglia della casa in rovina, che gli lasciavamo immensa, illuminata. Vedi, ti dicevo, fa scivolare sulla pietra disuguale, incomprensibile, dove siamo appoggiati, l’ombra delle nostre spalle confuse, quella dei mandorli vicini e quella dell’alto dei muri che si unisce alle altre, bucata, barca bruciata, prua che va alla deriva come un sovrappiù di sogno o di fumo. Ma laggiù le querce sono immobili, neppure l’ombra si muove, nella luce, sono le rive del tempo che scorre qui dove noi siamo e il suolo è inavvicinabile tanto è rapida la corrente gonfia di speranza della morte. Abbiamo guardato gli alberi un’ora intera. Il sole aspettava tra le pietre poi distese pietosamente verso gli alberi, più giù nel burrone, le nostre ombre che sembravano raggiungerli come allungando le braccia si può toccare, a volte, nella distanza tra due persone un istante del sogno dell’altra, che non ha fine.
SILENTI MASSI Sul quotidiano bianco piano di marmo (dove pure le acque oblique vanno) sempre lì stanno – messe da mani senza più carni – l’anfore memorie di lieti anni; e lì son come dei silenti massi: hanno le cavità aperte uguali a quelle orali dei muti sepolti a l'urne carte di pietrami e carne. G. Nigretti da Derive di pietra 2016
L'IMMUTABILE di Walter de la Mare Ecco le rose della sera, la notte quieta in tenebre sospesa - onde al galoppo volte a costellare di luci vive a fonda collina - e tu immota nel grembo della valle nella tua quieta eterna meraviglia in un sol grave sguardo chiudi tutto quell'incanto di pace e di mistero. La Bellezza celò il tuo corpo nudo, sognò un tempo nei tuoi capelli accesi, amabili e lontane. OMBRA di Walter de la Mare Se ne va pure il Bello della rosa quando sfuma il suo fervido fulgore - si allunga l'onda immobile sospesa nella polvere, scende un tenebrore che quel suo strano segno porta a casa. Le bolle d'acqua effimere dipingono sotto l'esile arco un'ombra evanescente fino all'ultima stella il nembo ardente dell'angolo in cornice fa brillare il suo riflesso pallido e tremante. La più amabile cosa della terra ha un'ombra, una perenne oscura tinta di morte che le infesta ogni respiro... Ma chi potrà mai dire la Bellezza dell'asfodelo dei cieli senz'ombra?
Premio Letterario Nazionale "Andrea Torresano" Gilgamesh Edizioni
AMARE DERIVE di Giuseppe Nigretti
Opera Terza Classificata - Sezione Poesia - Asola 2016
Amare derive
Una poesia matura quella di Nigretti, nulla manca, ha tutti i tratti dei versi consapevoli: ogni dettaglio ha il suo posto, ogni dettaglio ha un perché. La poesia resta reale, tangibile: "che su questa distesa carta è il reale" come già il poeta stesso dice. Dentro questa reale percezione di quello che sta intorno, non mancano le sensazioni, spesso forti, del poeta. Il linguaggio è spesso evocativo, diventa mutevole, si preannuncia quasi come il verso fosse libero, eppure la classicità della tela disegnata dal poeta rimane; la struttura non tradisce se stessa, nei versi cade leggera, senza mai svanire. E' come se questa struttura, cercasse di radicare anche i sentimenti e dare loro una guida, perché chi c'è dentro la poesia non possa perdersi, non possa rimanere scollegato dalla realtà.
Anila Resuli
La giuria Andrea Garbin (poeta), Anila Resuli (poeta), Carla Menaldo (giornalista e scrittrice), Carolina Giorgi (poeta, scrittrice e giornalista), Claudio Fraccari (critico letterario), Dario Bellini (editore), Marco Molinari (poeta), Marco Zucchini (editor), Valeria Raimondi (poeta).
ANDANDO
Quel che
ci resta dell’andare nostro
e del vociare
assolato di confusioni
giocose,
son solo le sgualcite carte
della
lesta stagione: oggi già icone
di
condivisioni, apparse sbiadite
dall’iperico
spazio virtuale
già
sepolto di cosparse occasioni.
Ora senza
stazioni è il chiuso viaggiare: nella eco
d’una
vocale – che su questa distesa carta è il
reale –.
CARE DONNE LONTANE ogni giorno è un perdersi se a raggiungermi albergo su fogli d’intorte parole la notte sfoglia le ore di pagane follie in voi fan colme fantasie come quelle che a incanto di dei svelano per~versi pensieri in carne a curve rime ammaliando parole delizie coniugate dal giardino di grembo lontano ed io di carta declino sulle labbra della notte di colore rosso lembo le sillabe del mattino. G. Nigretti da Derive deserte 1994/01