domenica 5 febbraio 2017

questo mio sasso

PAROLE (DOPO L’ESODO) DELL’ULTIMO DELLA MOGLIA
di Giorgio Caproni

Chi sia stato il primo, non
è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti
han preso la stessa via.
Ora non c’è più nessuno.

La mia
casa è la sola
abitata.

Son vecchio.
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?

Meglio – lo so – è ch’io vada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.

La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte direi, se anch’essa
– da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.

Aspetto
E ascolto.

(L’acqua,
da quanti milioni d’anni, l’acqua,
ha questo suono
sulle sue pietre?)

Mi sento
perso nel tempo.
Fuori
dal tempo, forse.

Ma sono
con me stesso. Non voglio
lasciar me stesso – uscire
da me stesso come,
la notte, dal sotterraneo
il grillotalpa in cerca
d’altro buio.

Il trifoglio
della città è troppo
fitto. Io son già cieco.
Ma qui vedo. Parlo.
Qui dialogo. Io
qui mi rispondo e ho il mio
interlocutore. Non voglio
murarlo nel silenzio sordo
d’un frastuono senz’ombra
d’anima. Di parole
senza più anima.

Certo
(è il vento degli anni ch’entra
nella mente e ne turba
le foglie) a volte
il cuore mi balza in gola se penso
a quant’ho perso. A tutta
la gaia consorteria
di ieri. Agli abbracci. Gli schiaffi.
Alle matte risate,
la sera, all’osteria
dietro alle donne. Alte
da spaccar le vetrate.

Ma non m’arrendo. Ancora
non ho perso me stesso.
Non sono, con me stesso,
ancora solo.

E solo
quando sarò così solo
da non aver più nemmeno
me stesso per compagnia,
allora prenderò anch’io la mia
decisione.

Staccherò
dal muro la lanterna,
un’alba, e dirò addio al vuoto.

A passo a passo
Scenderò nel vallone.

Ma anche allora, in nome
di che, e dove
troverò un senso (che altri,
pare, non han trovato),
lasciato questo mio sasso?

mercoledì 11 gennaio 2017

soto que atrae


ORILLAS DE TU VIENTRE di Miguel Hernández

¿Qué exaltaré en la tierra que no sea algo tuyo?
A mi lecho de ausente me echo como a una cruz
de solitarias lunas del deseo, y exalto la orilla de tu vientre.

Clavellina del valle que provocan tus piernas.
Granada que ha rasgado de plenitud su boca.
Trémula zarzamora suavemente dentada
donde vivo arrojado.

Arrojado y fugaz como el pez generoso,
ansioso de que el agua, la lenta acción del agua
lo devaste: sepulte su decisión eléctrica
de fértiles relámpagos.

Aún me estremece el choque primero de los dos;
cuando hicimos pedazos la luna a dentelladas,
impulsamos las sábanas a un abril de amapolas,
nos inspiraba el mar.

Soto que atrae, umbría de vello casi en llamas,
dentellada tenaz que siento en lo más hondo,
vertiginoso abismo que me recoge, loco
de la lúcida muerte.

Túnel por el que a ciegas me aferro a tus entrañas.
Recóndito lucero tras una madreselva
hacia donde la espuma se agolpa, arrebatada
del íntimo destino.

En ti tiene el oasis su más ansiado huerto:
el clavel y el jazmín se entrelazan, se ahogan.
De ti son tantos siglos de muerte, de locura
como te han sucedido.

Corazón de la tierra, centro del universo,
todo se atorbellina con afán de satélite
en torno a ti, pupila del sol que te entreabres
en la flor del manzano.

Ventana que da al mar, a una diáfana muerte
cada vez más profunda, más azul y anchurosa.
Su hálito de infinito propaga los espacios
entre tú y yo y el fuego.

Trágame, leve hoyo donde avanzo y me entierro.
La losa que me cubra sea tu vientre leve,
la madera tu carne, la bóveda tu ombligo,
la eternidad la orilla.

En ti me precipito como en la inmensidad
de un mediodía claro de sangre submarina,
mientras el delirante hoyo se hunde en el mar,
y el clamor se hace hombre.

Por ti logro en tu centro la libertad del astro.
En ti nos acoplamos como dos eslabones,
tú poseedora y yo. Y así somos cadena:
mortalmente abrazados.

domenica 1 gennaio 2017

deserti di occhi


DI ARDITI GIORNI 


gravido, è corsa gravosa parlare

quindi lemmi per squilli vi stilo
quando serpi spingono spilli
pendono pensieri privi di filo

su specchi deserti di occhi

e di voce, l’ombre vitree
di arditi giorni aleggiano

in oasi di piacere canino

dal vago cavo le varco e
verso scabbia pioggia e
arido d’amore declino

nostalgie di gerbido solco

penzolando zoppe rime
a infante seme sorrido

errando da nero migrante

nei vostri lacerati peluche
fugaci sostegni rammendo
dagli strappi rapidi passano

vuoti sciacalli riciclati

come vacche rumano fantasie nane e voi
di arditi giorni dimentiche
insieme sputate nere le ultime perle vere.


G. Nigretti da Derive eretiche 2009


mercoledì 28 dicembre 2016

nulla resta

DI FRONTE A MONTÀ

la vista non è quella alla Degas,

a zigzag con due assenti al bar:
è come quella al locale di Arles,
dal fondo tavolo frontale 
e di vacuo sodale umano; però
il sabato cielo è un po’ quello
di – nulla resta uguale – sopra il prato

di fritto e vino che la fiera porta

col sepolto vano di nostro andato.

G. Nigretti da Derive nel vento 2014

sabato 24 dicembre 2016

sogno


SOGNO di G. B. Marino

In sogno ancora (Amor, che puoi più farmi?)

gioco mi fai del tuo spietato impero.
Ecco colei, che già mi sparve, apparmi
in dolce atto vezzoso e lusinghiero.

Com’esser può che possa il sonno darmi

quel che ’n vigilia poi mi nega il vero?
Che mi conceda or tu quelche mostrarmi
non ardì mai l’adulator pensiero?

Ma se ben erro ed insensibil giaccio,

quanti oggetti più cari il senso formi
non vaglion l’ombra del’error ch’abbraccio.

Ahi, ben vegg’io che mentre in grembo a tormi

viene il riposo ed io gli dormo in braccio,
vegghia il mio incendio, e tu crudel non dormi.

giovedì 15 dicembre 2016

di mente







DI FRONTE

sta – ferma lì, senza fine eguale

a un fiore di pietra – nell’incolto
presente un’assenza che da sempre
non so mai se di fronte sorgiva
sia di reale ombra o di mente
uscita parvenza, che su carta
già fioriva – senz’alito di vita

su nebulo fondo il guardo si posa:

come bianco velo senza la sposa.

G. Nigretti da Derive di scorie 2016


domenica 27 novembre 2016

ferrivecchi


A TRANI I TRENI A VAPORE di A. Cabianca

A Trani i treni a vapore

Tratti in depositi stravecchi
Tramano per tornare liberi
Su tratte di binari a ferrivecchi;
Cavalli selvaggi li accompagnano
Pronti a trotterellare affianco
Come si addice a un branco
Che non lo prendi in trappola:
Sei tu il troppo che scalpita.

lunedì 21 novembre 2016

da Trani

F. Zanovello
DA TRANI di Francesco Zanovello

Da Trani

Venisti
Col treno;
Anni oramai
Molto lontani.
Lasciavi a oriente
Un "mare" di gente;
Un olivo di quasi mille anni
Lasciavi.....................lì a Trani.

giovedì 10 novembre 2016

in gola


NOTTURNA

poi mi venne

addosso
la notte
di quelle a stelle
e finestre rotte.

Digiuna cadde

pure la mezza luna
fra verghe, urina e
vetro
vuoto e larve ingoiava

con alito a fiori

d’asfalto
diluendo parole
e amore
d’ancella in gola spezzò
ogni stella

già cadente

mondana s’appese
de drio la meridiana mia
con ascelle pelose e
labbra umettate

bava sulla poesia colava

(come di rana notturna puttana)
pensai a un bruco
di nostalgia
ma era saliva
d’ipocrisia.

G. Nigretti da Derive di notte 2009/2010


lunedì 31 ottobre 2016

un punto


da XENIA II di E. Montale

La morte non ti riguardava.

Anche i tuoi cani erano morti, anche
il medico dei pazzi detto lo zio demente,
anche tua madre e la sua ‘specialità’
di riso e rane, trionfo meneghino;
e anche tuo padre che da una minieffigie
mi sorveglia dal muro sera e mattina.
Malgrado ciò la morte non ti riguardava.

Ai funerali dovevo andare io,

nascosto in un tassì restandone lontano
per evitare lacrime e fastidi. E neppure
t’importava la vita e le sue fiere
di vanità e ingordigie e tanto meno le
cancrene universali che trasformano
gli uomini in lupi.

Un tabula rasa; se non fosse

che un punto c’era, per me incomprensibile,
e questo punto ti riguardava.

sabato 22 ottobre 2016

solo urlare

DI VITA E GIOIA                                             in morte di E.F.

Danzano le rame di palmette
Coll’aria maestrale del mare…
Ma qui tutto pare un solo urlare
E tu quieta nel talamo dormi
Con ali vere di nero gabbiano
Muta t’involi: – a quel secreto
lontano senza doglia di domani –

E nel vuoto che ci lasci non sarai
Memoria mai vacua di vita e gioia.

G. Nigretti da Amare derive 2016

domenica 9 ottobre 2016

non saprei dire


Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida di E. Montale

a K.


Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida

scorta per avventura tra le pietraie d'un greto,
esiguo specchio in cui guardi un'ellera e i suoi corimbi;
e su tutto l'abbraccio di un bianco cielo quieto.

Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,

se dal tuo volto si esprime libera un'anima ingenua,
vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie

sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,
e che il tuo aspetto s'insinua nella memoria grigia
schietto come la cima di una giovane palma...

sabato 1 ottobre 2016

poeta legge poeta



Poeta legge poeta – intervento di G. Nigretti

Con questa coinvolgente iniziativa Alessandro Cabianca ci ha proposto di portare con noi un poeta guida, un poeta di riferimento… 
Personalmente non è stata una facile scelta, almeno da un punto di vista cosciente, perché nella mia deriva poetica, più che ad un poeta guida, sento la vicinanza a diversi poeti italiani, in particolare:

Il Montale di Ossi di seppia  – per la poetica del male di vivere
Il Quasimodo di Ed è subito sera – per la poetica della solitudine dell’uomo
O il Giudici di La vita in versi – per la poesia come necessità esistenziale

Ho qui con me la poesia di Quasimodo "Vento a Tindari". Poesia che racchiude in sé l’inquietudine, il dramma e le contraddizioni dell'uomo moderno.
La mia vicinanza al Quasimodo di Vento a Tindari è connessa anche, e non solo, al tema dello sradicamento dell'uomo, per la sua, e mia, personale condizione di esule volontario dal sud al nord Italia.


VENTO A TINDARI

Tindari, mite ti so

Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,

assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima

A te ignota è la terra

Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,

e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tindari serena torna;

soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.



Con la poesia dell’uomo esule, dell’uomo fuori suolo, "Vento a Tindari", ho portato, con grande umiltà, la mia "È domenica", poesia del 2011 che fa parte della sezione Derive straniere della raccolta Amare derive. 
Il tema è la classica passeggiata estiva dei tranesi (Trani è la mia città natale) nel giardino pubblico sul mare, che al sud chiamano Villa.


È DOMENICA

e s’affolla d’ombre e genti 

la Villa – bell’anima antica
verde a giuochi, a illusi amori
fra falciate aiuole – una poesia
di palme e lecci e pini e tamerici
(germoglia un fiore di nostalgia?)

in un angolo buio al cuore

una luce di viali e fontanelle
spingono famiglie e amorini
e giovani mogli coi carrozzini
e vecchi stanchi sui pesanti anni
e a gesti a gridi di voci e cicale

vanno tutti alle ringhiere di sale

a veder l’aroma acerbo del mare
(è un restare quel che m’assale?)
e s’alza d’esilio una nebbia accanto
all’essere mio non sfronda radici 
e in quel che ero oggi erro straniero.



Oggi l’esule, il vero e tragico uomo fuori suolo è il migrante… da Derive di carta del 2015 leggo "Gli umani", poesia scritta osservando uno stormo autunnale di rondini in volo


GLI UMANI

Quando neri dall’innato alto

andar via – sull’autunno aspro
di vento maestro lontano –
i migranti quieti colmano
con grazie di nugoli tersi
il riguardare di noi umani:
senz’ali e già di terre neri

su onde avverse e spini di ferro persi

stanno gli umani che mai rimiriamo.


mercoledì 7 settembre 2016

ombre concordi


PERSONAE SEPARATAE di Eugenio Montale

Come la scaglia d’oro che si spicca

dal fondo oscuro e liquefatta cola
nel corridoio dei carrubi ormai
ischeletriti, così pure noi
persone separate per lo sguardo
d’un altro? E’ poca cosa la parola,
poca cosa lo spazio in questi crudi
noviluni annebbiati: ciò che manca,
e che ci torce il cuore e qui m’attarda
tra gli alberi ad attenderti, è un perduto
senso, o il fuoco, se vuoi, che a terra stampi,
figure parallele, ombre concordi,
aste di un sol quadrante i nuovi tronchi
delle radure e colmi anche le cave
ceppaie, nido alle formiche. Troppo
straziato è il bosco umano, troppo sorda
quella voce perenne, troppo ansioso
lo squarcio che si sbiocca sui nevati
gioghi di Lunigiana. La tua forma
passò di qui, si riposò sul riano
tra le nasse atterrate, poi si sciolse
come un sospiro, intorno – e ivi non era
l’orror che fiotta, in te la luce ancora
trovava luce, oggi non più che al giorno
primo già annotta.

giovedì 18 agosto 2016

prode pure

INVOLO

Per amare derive a prode pure

parole involo, ed anche per maree
d’affranto: perchè – da scorie sture
alla Dolle un dì lemma d’incanto
qui rifiorirà. Nel vento d'arselle
da chiaro volo è ora il guardare
verso l'assolo di spalle passare

l'essere gabbiano in volo regale

e tu a menar mano all'ala carnale.

G. Nigretti da Derive maree 2016

lunedì 8 agosto 2016

stelle fallite


MES PETITES AMOUREUSES  di Arthur Rimbaud

Un hydrolat lacrymal lave
     Les cieux vert-chou :
Sous l'arbre tendronnier qui bave,
     Vos caoutchoucs

Blancs de lunes particulières
     Aux pialats ronds,
Entrechoquez vos genouillères
     Mes laiderons !

Nous nous aimions à cette époque,
     Bleu laideron !
On mangeait des oeufs à la coque
     Et du mouron !

Un soir, tu me sacras poète
     Blond laideron :
Descends ici, que je te fouette
     En mon giron;

J'ai dégueulé ta bandoline,
     Noir laideron ;
Tu couperais ma mandoline
     Au fil du front.

Pouah ! mes salives desséchées,
     Roux laideron
Infectent encor les tranchées
     De ton sein rond !

Ô mes petites amoureuses,
     Que je vous hais !
Plaquez de fouffes douloureuses
     Vos tétons laids !

Piétinez mes vieilles terrines
     De sentiments;
Hop donc ! Soyez-moi ballerines
     Pour un moment !

Vos omoplates se déboîtent,
     Ô mes amours !
Une étoile à vos reins qui boitent,
     Tournez vos tours !

Et c'est pourtant pour ces éclanches
     Que j'ai rimé !
Je voudrais vous casser les hanches
     D'avoir aimé !

Fade amas d'étoiles ratées,
     Comblez les coins !
− Vous crèverez en Dieu, bâtées
     D'ignobles soins !

Sous les lunes particulières
     Aux pialats ronds,
Entrechoquez vos genouillères,
     Mes laiderons.


LE MIE PICCOLE INNAMORATE

Un idrolato lacrimale lava
i cieli verde-cavolo:
sotto l'albero gemmato che sbava,
i vostri caucciù.

Bianche di lune particolari
dalle eminenze tonde,
cozzate le vostre ginocchiere!
mie bruttone!

Ci amavamo a quei tempi,
bruttona blu!
mangiavamo uova alla coque
e mangime!

Una sera mi consacrasti poeta,
bruttona bionda:
vieni giù qua, che ti frusti
sul mio grembo;

Ho vomitato la tua brillantina,
bruttona nera;
tu taglieresti il mio mandolino
al filo della fronte.

Puah! le mie salive disseccate,
bruttona rossa,
infettano ancora le trincee
del tuo seno tondo!

Oh mie piccole innamorate,
quanto vi odio!
prendete a pugni dolorosi
i vostri laidi tettoni!

Calpestate le mie vecchie terrine
di sentimento;
- Hop là! siatemi ballerine
per un momento!...

Le vostre scapole si dislocano,
Oh amori miei!
una stella alle vostre reni che traballano.
Ballate i vostri girotondi!

E tuttavia è per costate simili
che io ho rimato!
Vorrei spezzarvi i fianchi
per aver amato!

Ammasso insulso di stelle fallite,
riempite gli angoli!
- Creperete in Dio, sotto il basto
di ignobili cure!

Sotto le lune particolari
dalle eminenze tonde,
cozzate le vostre ginocchiere,
mie bruttone! 

sabato 30 luglio 2016

d'oro e miele



DAL MARE MUTO

Ora che fra le onde non più ti porgo
di stelle d’oro e miele il bel dono
quel che spargo è solo questo suono:
di sassi senza memoria di sale
che dal mare muto e ora lontano
ancora accanto si slarga piano
all'eguale gorgo che non scorgo

sullo scoglio dalle scorie scosso 
dove il naufragar serale albergo.

G. Nigretti da Derive di mare 2016

martedì 12 luglio 2016

un filare


LA BICICLETTA di G. Pascoli

Mi parve di scorgere un mare
dorato di tremule messi.
Un battito . . . Vidi un filare
di neri cipressi.

Mi parve di fendere il pianto
d'un lungo corteo di dolore.
Un palpito . . . M'erano accanto
le nozze e l'amore.
dlin . . . dlin . . .

II
Ancora echeggiavano i gridi
dell'innominabile folla;
che udivo stridire gli acrìdi
su l'umida zolla.

Mi disse parole sue brevi
qualcuno che arava nel piano:
tu, quando risposi, tenevi
la falce alla mano.

Io dissi un'alata parola,
fuggevole vergine, a te;
la intese una vecchia che sola
parlava con sè.
dlin . . . dlin . . .

III
Mia terra, mia labile strada,
sei tu che trascorri o son io ?
Che importa? Ch'io venga o tu vada,
non è che un addio!

Ma bello è quest'impeto d'ala,
ma grata è l'ebbrezza del giorno.
Pur dolce è il riposo . . . Già cala
la notte: io ritorno.

La piccola lampada brilla
per mezzo all'oscura città.
Più lenta la piccola squilla
dà un palpito, e va. . .
dlin... dlin...

giovedì 30 giugno 2016

due sirene


L'ULTIMO VIAGGIO - LE SIRENE di G. Pascoli

Indi più lungi navigò, più triste.
E stando a poppa il vecchio Eroe guardava
scuro verso la terra de’ Ciclopi,
e vide dal cocuzzolo selvaggio
del monte, che in disparte era degli altri,
levarsi su nel roseo cielo un fumo,
tenue, leggiero, quale esce su l’alba
dal fuoco che al pastore arse la notte.
Ma i remiganti curvi sopra i remi
vedeano, sì, nel violaceo mare
lunghe tremare l’ombre dei Ciclopi
fermi sul lido come ispidi monti.
E il cuore intanto ad Odisseo vegliardo
squittiva dentro, come cane in sogno:
     Il mio sogno non era altro che sogno;
e vento e fumo. Ma sol buono è il vero.
     E gli sovvenne delle due Sirene.
C’era un prato di fiori in mezzo al mare.
Nella gran calma le ascoltò cantare:
     Ferma la nave! Odi le due Sirene
ch’hanno la voce come è dolce il miele;
ché niuno passa su la nave nera
che non si fermi ad ascoltarci appena,
e non ci ascolta, che non goda al canto,
né se ne va senza saper più tanto:
ché noi sappiamo tutto quanto avviene
sopra la terra dove è tanta gente!
     Gli sovveniva, e ripensò che Circe
gl’invidiasse ciò che solo è bello:
saper le cose. E ciò dovea la Maga
dalle molt’erbe, in mezzo alle sue belve.
Ma l’uomo eretto, ch’ha il pensier dal cielo,
dovea fermarsi, udire, anche se l’ossa
aveano poi da biancheggiar nel prato,
e raggrinzarsi intorno lor la pelle.
Passare ei non doveva oltre, se anco
gli si vietava riveder la moglie
e il caro figlio e la sua patria terra.
     E ai vecchi curvi il vecchio Eroe parlò:
Uomini, andiamo a ciò che solo è bene:
a udire il canto delle due Sirene.
Io voglio udirlo, eretto su la nave,
né già legato con le funi ignave:
libero! alzando su la ciurma anela
la testa bianca come bianca vela;
e tutto quanto nella terra avviene
saper dal labbro delle due Sirene.
     Disse, e ne punse ai remiganti il cuore,
che seduti coi remi battean l’acqua,
saper volendo ciò che avviene in terra:
se avea fruttato la sassosa vigna,
se la vacca avea fatto, se il vicino
aveva d’orzo più raccolto o meno,
e che facea la fida moglie allora,
se andava al fonte, se filava in casa.