A TRANI I TRENI A VAPORE di A. Cabianca A Trani i treni a vapore Tratti in depositi stravecchi Tramano per tornare liberi Su tratte di binari a ferrivecchi; Cavalli selvaggi li accompagnano Pronti a trotterellare affianco Come si addice a un branco Che non lo prendi in trappola: Sei tu il troppo che scalpita.
DA TRANI di Francesco Zanovello Da Trani Venisti Col treno; Anni oramai Molto lontani. Lasciavi a oriente Un "mare" di gente; Un olivo di quasi mille anni Lasciavi.....................lì a Trani.
NOTTURNA poi mi venne addosso la notte di quelle a stelle e finestre rotte. Digiuna cadde pure la mezza luna fra verghe, urina e vetro vuoto e larve ingoiava con alito a fiori d’asfalto diluendo parole e amore d’ancella in gola spezzò ogni stella già cadente mondana s’appese de drio la meridiana mia con ascelle pelose e labbra umettate bava sulla poesia colava (come di rana notturna puttana) pensai a un bruco di nostalgia ma era saliva d’ipocrisia. G. Nigretti da Derive di notte 2009/2010
da XENIA II di E. Montale La morte non ti riguardava. Anche i tuoi cani erano morti, anche il medico dei pazzi detto lo zio demente, anche tua madre e la sua ‘specialità’ di riso e rane, trionfo meneghino; e anche tuo padre che da una minieffigie mi sorveglia dal muro sera e mattina. Malgrado ciò la morte non ti riguardava. Ai funerali dovevo andare io, nascosto in un tassì restandone lontano per evitare lacrime e fastidi. E neppure t’importava la vita e le sue fiere di vanità e ingordigie e tanto meno le cancrene universali che trasformano gli uomini in lupi. Un tabula rasa; se non fosse che un punto c’era, per me incomprensibile, e questo punto ti riguardava.
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida di E. Montale a K. Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida scorta per avventura tra le pietraie d'un greto, esiguo specchio in cui guardi un'ellera e i suoi corimbi; e su tutto l'abbraccio di un bianco cielo quieto. Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano, se dal tuo volto si esprime libera un'anima ingenua, vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua e recano il loro soffrire con sé come un talismano. Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma, e che il tuo aspetto s'insinua nella memoria grigia schietto come la cima di una giovane palma...
Con questa coinvolgente iniziativa Alessandro Cabianca ci ha proposto di portare con noi un poeta guida, un poeta di riferimento…
Personalmente non è stata una facile scelta, almeno da un punto di vista cosciente, perché nella mia deriva poetica, più che ad un poeta guida, sento la vicinanza a diversi poeti italiani, in particolare:
Il Montale di Ossi di seppia – per la poetica del male di vivere
Il Quasimodo di Ed è subito sera – per la poetica della solitudine dell’uomo
O il Giudici di La vita in versi – per la poesia come necessità esistenziale
Ho qui con me la poesia di Quasimodo "Vento a Tindari". Poesia che racchiude in sé l’inquietudine, il dramma e le contraddizioni dell'uomo moderno.
La mia vicinanza al Quasimodo di Vento a Tindari è connessa anche, e non solo, al tema dello sradicamento dell'uomo, per la sua, e mia, personale condizione di esule volontario dal sud al nord Italia.
VENTO A TINDARI Tindari, mite ti so Fra larghi colli pensile sull’acque Delle isole dolci del dio, oggi m’assali e ti chini in cuore. Salgo vertici aerei precipizi, assorto al vento dei pini, e la brigata che lieve m’accompagna s’allontana nell’aria, onda di suoni e amore, e tu mi prendi da cui male mi trassi e paure d’ombre e di silenzi, rifugi di dolcezze un tempo assidue e morte d’anima A te ignota è la terra Ove ogni giorno affondo E segrete sillabe nutro: altra luce ti sfoglia sopra i vetri nella veste notturna, e gioia non mia riposa sul tuo grembo. Aspro è l’esilio, e la ricerca che chiudevo in te d’armonia oggi si muta in ansia precoce di morire; e ogni amore è schermo alla tristezza, tacito passo al buio dove mi hai posto amaro pane a rompere. Tindari serena torna; soave amico mi desta che mi sporga nel cielo da una rupe e io fingo timore a chi non sa che vento profondo m’ha cercato.
Con la poesia dell’uomo esule, dell’uomo fuori suolo, "Vento a Tindari", ho portato, con grande umiltà, la mia "È domenica", poesia del 2011 che fa parte della sezione Derive straniere della raccolta Amare derive.
Il tema è la classica passeggiata estiva dei tranesi (Trani è la mia città natale) nel giardino pubblico sul mare, che al sud chiamano Villa.
È DOMENICA e s’affolla d’ombre e genti la Villa – bell’anima antica verde a giuochi, a illusi amori fra falciate aiuole – una poesia di palme e lecci e pini e tamerici (germoglia un fiore di nostalgia?) in un angolo buio al cuore una luce di viali e fontanelle spingono famiglie e amorini e giovani mogli coi carrozzini e vecchi stanchi sui pesanti anni e a gesti a gridi di voci e cicale vanno tutti alle ringhiere di sale a veder l’aroma acerbo del mare (è un restare quel che m’assale?) e s’alza d’esilio una nebbia accanto all’essere mio non sfronda radici e in quel che ero oggi erro straniero.
Oggi l’esule, il vero e tragico uomo fuori suolo è il migrante… da Derive di carta del 2015 leggo "Gli umani", poesia scritta osservando uno stormo autunnale di rondini in volo
GLI UMANI Quando neri dall’innato alto andar via – sull’autunno aspro di vento maestro lontano – i migranti quieti colmano con grazie di nugoli tersi il riguardare di noi umani: senz’ali e già di terre neri su onde avverse e spini di ferro persi stanno gli umani che mai rimiriamo.
PERSONAE SEPARATAE di Eugenio Montale Come la scaglia d’oro che si spicca dal fondo oscuro e liquefatta cola nel corridoio dei carrubi ormai ischeletriti, così pure noi persone separate per lo sguardo d’un altro? E’ poca cosa la parola, poca cosa lo spazio in questi crudi noviluni annebbiati: ciò che manca, e che ci torce il cuore e qui m’attarda tra gli alberi ad attenderti, è un perduto senso, o il fuoco, se vuoi, che a terra stampi, figure parallele, ombre concordi, aste di un sol quadrante i nuovi tronchi delle radure e colmi anche le cave ceppaie, nido alle formiche. Troppo straziato è il bosco umano, troppo sorda quella voce perenne, troppo ansioso lo squarcio che si sbiocca sui nevati gioghi di Lunigiana. La tua forma passò di qui, si riposò sul riano tra le nasse atterrate, poi si sciolse come un sospiro, intorno – e ivi non era l’orror che fiotta, in te la luce ancora trovava luce, oggi non più che al giorno primo già annotta.
INVOLO Per amare derive a prode pure parole involo, ed anche per maree d’affranto: perchè – da scorie sture – alla Dolle un dì lemma d’incanto qui rifiorirà. Nel vento d'arselle da chiaro volo è ora il guardare verso l'assolo di spalle passare l'essere gabbiano in volo regale e tu a menar mano all'ala carnale.
MES PETITES AMOUREUSES di Arthur Rimbaud Un hydrolat lacrymal lave Les cieux vert-chou : Sous l'arbre tendronnier qui bave, Vos caoutchoucs Blancs de lunes particulières Aux pialats ronds, Entrechoquez vos genouillères Mes laiderons ! Nous nous aimions à cette époque, Bleu laideron ! On mangeait des oeufs à la coque Et du mouron ! Un soir, tu me sacras poète Blond laideron : Descends ici, que je te fouette En mon giron; J'ai dégueulé ta bandoline, Noir laideron ; Tu couperais ma mandoline Au fil du front. Pouah ! mes salives desséchées, Roux laideron Infectent encor les tranchées De ton sein rond ! Ô mes petites amoureuses, Que je vous hais ! Plaquez de fouffes douloureuses Vos tétons laids ! Piétinez mes vieilles terrines De sentiments; Hop donc ! Soyez-moi ballerines Pour un moment ! Vos omoplates se déboîtent, Ô mes amours ! Une étoile à vos reins qui boitent, Tournez vos tours ! Et c'est pourtant pour ces éclanches Que j'ai rimé ! Je voudrais vous casser les hanches D'avoir aimé ! Fade amas d'étoiles ratées, Comblez les coins ! − Vous crèverez en Dieu, bâtées D'ignobles soins ! Sous les lunes particulières Aux pialats ronds, Entrechoquez vos genouillères, Mes laiderons. LE MIE PICCOLE INNAMORATE Un idrolato lacrimale lava i cieli verde-cavolo: sotto l'albero gemmato che sbava, i vostri caucciù. Bianche di lune particolari dalle eminenze tonde, cozzate le vostre ginocchiere! mie bruttone! Ci amavamo a quei tempi, bruttona blu! mangiavamo uova alla coque e mangime! Una sera mi consacrasti poeta, bruttona bionda: vieni giù qua, che ti frusti sul mio grembo; Ho vomitato la tua brillantina, bruttona nera; tu taglieresti il mio mandolino al filo della fronte. Puah! le mie salive disseccate, bruttona rossa, infettano ancora le trincee del tuo seno tondo! Oh mie piccole innamorate, quanto vi odio! prendete a pugni dolorosi i vostri laidi tettoni! Calpestate le mie vecchie terrine di sentimento; - Hop là! siatemi ballerine per un momento!... Le vostre scapole si dislocano, Oh amori miei! una stella alle vostre reni che traballano. Ballate i vostri girotondi! E tuttavia è per costate simili che io ho rimato! Vorrei spezzarvi i fianchi per aver amato! Ammasso insulso di stelle fallite, riempite gli angoli! - Creperete in Dio, sotto il basto di ignobili cure! Sotto le lune particolari dalle eminenze tonde, cozzate le vostre ginocchiere, mie bruttone!
DAL MARE MUTO Ora che fra le onde non più ti porgo di stelle d’oro e miele il bel dono quel che spargo è solo questo suono: – di sassi senza memoria di sale – che dal mare muto e ora lontano ancora accanto si slarga piano all'eguale gorgo che non scorgo sullo scoglio dalle scorie scosso dove il naufragar serale albergo.
LA BICICLETTA di G. Pascoli Mi parve di scorgere un mare dorato di tremule messi. Un battito . . . Vidi un filare di neri cipressi. Mi parve di fendere il pianto d'un lungo corteo di dolore. Un palpito . . . M'erano accanto le nozze e l'amore. dlin . . . dlin . . . II Ancora echeggiavano i gridi dell'innominabile folla; che udivo stridire gli acrìdi su l'umida zolla. Mi disse parole sue brevi qualcuno che arava nel piano: tu, quando risposi, tenevi la falce alla mano. Io dissi un'alata parola, fuggevole vergine, a te; la intese una vecchia che sola parlava con sè. dlin . . . dlin . . . III Mia terra, mia labile strada, sei tu che trascorri o son io ? Che importa? Ch'io venga o tu vada, non è che un addio! Ma bello è quest'impeto d'ala, ma grata è l'ebbrezza del giorno. Pur dolce è il riposo . . . Già cala la notte: io ritorno. La piccola lampada brilla per mezzo all'oscura città. Più lenta la piccola squilla dà un palpito, e va. . . dlin... dlin...
L'ULTIMO VIAGGIO - LE SIRENE di G. Pascoli Indi più lungi navigò, più triste. E stando a poppa il vecchio Eroe guardava scuro verso la terra de’ Ciclopi, e vide dal cocuzzolo selvaggio del monte, che in disparte era degli altri, levarsi su nel roseo cielo un fumo, tenue, leggiero, quale esce su l’alba dal fuoco che al pastore arse la notte. Ma i remiganti curvi sopra i remi vedeano, sì, nel violaceo mare lunghe tremare l’ombre dei Ciclopi fermi sul lido come ispidi monti. E il cuore intanto ad Odisseo vegliardo squittiva dentro, come cane in sogno: Il mio sogno non era altro che sogno; e vento e fumo. Ma sol buono è il vero. E gli sovvenne delle due Sirene. C’era un prato di fiori in mezzo al mare. Nella gran calma le ascoltò cantare: Ferma la nave! Odi le due Sirene ch’hanno la voce come è dolce il miele; ché niuno passa su la nave nera che non si fermi ad ascoltarci appena, e non ci ascolta, che non goda al canto, né se ne va senza saper più tanto: ché noi sappiamo tutto quanto avviene sopra la terra dove è tanta gente! Gli sovveniva, e ripensò che Circe gl’invidiasse ciò che solo è bello: saper le cose. E ciò dovea la Maga dalle molt’erbe, in mezzo alle sue belve. Ma l’uomo eretto, ch’ha il pensier dal cielo, dovea fermarsi, udire, anche se l’ossa aveano poi da biancheggiar nel prato, e raggrinzarsi intorno lor la pelle. Passare ei non doveva oltre, se anco gli si vietava riveder la moglie e il caro figlio e la sua patria terra. E ai vecchi curvi il vecchio Eroe parlò: Uomini, andiamo a ciò che solo è bene: a udire il canto delle due Sirene. Io voglio udirlo, eretto su la nave, né già legato con le funi ignave: libero! alzando su la ciurma anela la testa bianca come bianca vela; e tutto quanto nella terra avviene saper dal labbro delle due Sirene. Disse, e ne punse ai remiganti il cuore, che seduti coi remi battean l’acqua, saper volendo ciò che avviene in terra: se avea fruttato la sassosa vigna, se la vacca avea fatto, se il vicino aveva d’orzo più raccolto o meno, e che facea la fida moglie allora, se andava al fonte, se filava in casa.
LA SERA DEL DI’ DI FESTA di G. Leopardi Dolce e chiara è la notte e senza vento, e questa sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna. O donna mia, già tace ogni sentiero, e pei balconi rara traluce la notturna lampa: tu dormi, ché t’accolse agevol sonno nelle tue chete stanze; e non ti morde cura nessuna; e già non sai né pensi quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno appare in vista, a salutar m’affaccio, e l’antica natura onnipossente, che mi fece all’affanno. – A te la speme nego, mi disse, anche la speme,; e d’altro non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. – Questo dì fu solenne; or da’ trastulli prendi riposo; e forse ti rimembra in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti piacquero a te: non io, non già ch’io speri, al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo quanto a viver mi resti, e qui per terra mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi in così verde etate! Ahi, per la via odo non lunghe il solitario canto dell’artigian, che riede a tarda notte, dopo i sollazzi, al suo povero ostello; e fieramente mi stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito il dì festivo, ed al festivo il giorno volgar succede, e se ne porta il tempo ogni umano accidente. Or dov’è il suono di que’ popoli antichi? Or dov’è il grido de’ nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi e il fragorìo che n’andò per la terra e l’oceàno? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando s’aspetta bramosamente il dì festivo, or poscia ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, premea le piume; ed alla tarda notte un canto che s’udia per li sentieri lontanando morire a poco a poco già similmente mi stringeva il core.
17 GIUGNO Squassavano rondoni neri le terrazze bianche in giro giocando il vespro chiaro sulla Chjazze du Pèsce i pescivendoli a voci rotte pescavano gli ultimi omini smenando belle sode sardelle e le ultime audaci seppie novelle. In punta di piedi sorrisi di fiato sul limpido vetro disegnandoli aspettavo il sempre tuo buono dall’ombra in piazza di ritorno senza fine atteso era già da quelli che vendevi con felini e pecorini. Eri il Pane Antico – sulla bianca terrazza delle serene notti di colorblu lontananza. Poi in nero rondone muto mutò e in giro agile su ali raggiate girava e per viuzze e palazzi bolli e serti portavi di nere cozze pescate con corta lama aperte e crude mangiate in quell’ultimo nostro incontro primo negli occhi tuoi buoni e a nera morte umidi e in questo stretto addio padre filiale m’affacciavo e liberi canarini canterini volavano – dalla terrazza oggi a nero asfaltata già dietro opachi vetri spenti m’addormo, fra le ombre vuote di vino o di mute passanti sotto, e sotto crolli le terrazze son crollate disfatte da sigillate inferriate di bluasfalto ghiacciate. (e polvere calida sfuma il lontano corpo gravido e dipinge i suoi lisci occhi neri e veri e mai indiani e padani e oggi la rimpiango dentro il fango già rappreso ieri colle ultime perle vere che in socchiusi palmi accolse) E il rondone nero andò – e alto veleggia ancora e l’inferriata salda iniziò di serti secchi a sfiorire e venne Pandora con Caino e tutta gramigna seminò e venne Brillina con sacchi e velli e donò un regalino e venne Dolorina con stille e stalle e lanciò un sassino e venne Nanina con tacchi e santi e volle il librettino e venne Ilioina con lingue e pianti e un pelino lasciò e giunse Giugno con rovescio secco e incerato bluvecchio addosso porta e commosso indosso il sommo vuoto dell’annoso giorno di anni già stecco. G. Nigretti da Derive eretiche 2009