lunedì 21 novembre 2016
giovedì 10 novembre 2016
in gola
NOTTURNA
poi mi venne
addosso
la notte
di quelle a stelle
e finestre rotte.
Digiuna cadde
pure la mezza luna
fra verghe, urina e
vetro
vuoto e larve ingoiava
con alito a fiori
d’asfalto
diluendo parole
e amore
d’ancella in gola spezzò
ogni stella
già cadente
mondana s’appese
de drio la meridiana mia
con ascelle pelose e
labbra umettate
bava sulla poesia colava
(come di rana notturna puttana)
pensai a un bruco
di nostalgia
ma era saliva
d’ipocrisia.
G. Nigretti da Derive di notte 2009/2010
lunedì 31 ottobre 2016
un punto
da XENIA II di E. Montale
La morte non ti riguardava.
Anche i tuoi cani erano morti, anche
il medico dei pazzi detto lo zio demente,
anche tua madre e la sua ‘specialità’
di riso e rane, trionfo meneghino;
e anche tuo padre che da una minieffigie
mi sorveglia dal muro sera e mattina.
Malgrado ciò la morte non ti riguardava.
Ai funerali dovevo andare io,
nascosto in un tassì restandone lontano
per evitare lacrime e fastidi. E neppure
t’importava la vita e le sue fiere
di vanità e ingordigie e tanto meno le
cancrene universali che trasformano
gli uomini in lupi.
Un tabula rasa; se non fosse
che un punto c’era, per me incomprensibile,
e questo punto ti riguardava.
sabato 22 ottobre 2016
solo urlare
DI VITA E GIOIA in morte di E.F.
Danzano le rame di palmette
Coll’aria maestrale del mare…
Ma qui tutto pare un solo urlare
E tu quieta nel talamo dormi
Con ali vere di nero gabbiano
Muta t’involi: – a quel secreto
lontano senza doglia di domani –
E nel vuoto che ci lasci non sarai
Memoria mai vacua di vita e gioia.
G. Nigretti da Amare derive 2016
domenica 9 ottobre 2016
non saprei dire
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida di E. Montale
a K.
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida
scorta per avventura tra le pietraie d'un greto,
esiguo specchio in cui guardi un'ellera e i suoi corimbi;
e su tutto l'abbraccio di un bianco cielo quieto.
Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto si esprime libera un'anima ingenua,
vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.
Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,
e che il tuo aspetto s'insinua nella memoria grigia
schietto come la cima di una giovane palma...
sabato 1 ottobre 2016
poeta legge poeta
Poeta legge poeta – intervento di G. Nigretti
Con questa coinvolgente iniziativa Alessandro Cabianca ci ha proposto di portare con noi un poeta guida, un poeta di riferimento…
Personalmente non è stata una facile scelta, almeno da un punto di vista cosciente, perché nella mia deriva poetica, più che ad un poeta guida, sento la vicinanza a diversi poeti italiani, in particolare:
Il Montale di Ossi di seppia – per la poetica del male di vivere
Il Quasimodo di Ed è subito sera – per la poetica della solitudine dell’uomo
O il Giudici di La vita in versi – per la poesia come necessità esistenziale
Ho qui con me la poesia di Quasimodo "Vento a Tindari". Poesia che racchiude in sé l’inquietudine, il dramma e le contraddizioni dell'uomo moderno.
La mia vicinanza al Quasimodo di Vento a Tindari è connessa anche, e non solo, al tema dello sradicamento dell'uomo, per la sua, e mia, personale condizione di esule volontario dal sud al nord Italia.
VENTO A TINDARI
Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima
A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.
Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.
Con la poesia dell’uomo esule, dell’uomo fuori suolo, "Vento a Tindari", ho portato, con grande umiltà, la mia "È domenica", poesia del 2011 che fa parte della sezione Derive straniere della raccolta Amare derive.
Il tema è la classica passeggiata estiva dei tranesi (Trani è la mia città natale) nel giardino pubblico sul mare, che al sud chiamano Villa.
È DOMENICA
e s’affolla d’ombre e genti
la Villa – bell’anima antica
verde a giuochi, a illusi amori
fra falciate aiuole – una poesia
di palme e lecci e pini e tamerici
(germoglia un fiore di nostalgia?)
in un angolo buio al cuore
una luce di viali e fontanelle
spingono famiglie e amorini
e giovani mogli coi carrozzini
e vecchi stanchi sui pesanti anni
e a gesti a gridi di voci e cicale
vanno tutti alle ringhiere di sale
a veder l’aroma acerbo del mare
(è un restare quel che m’assale?)
e s’alza d’esilio una nebbia accanto
all’essere mio non sfronda radici
e in quel che ero oggi erro straniero.
Oggi l’esule, il vero e tragico uomo fuori suolo è il migrante… da Derive di carta del 2015 leggo "Gli umani", poesia scritta osservando uno stormo autunnale di rondini in volo
GLI UMANI
Quando neri dall’innato alto
andar via – sull’autunno aspro
di vento maestro lontano –
i migranti quieti colmano
con grazie di nugoli tersi
il riguardare di noi umani:
senz’ali e già di terre neri
su onde avverse e spini di ferro persi
stanno gli umani che mai rimiriamo.
mercoledì 7 settembre 2016
ombre concordi
PERSONAE SEPARATAE di Eugenio Montale
Come la scaglia d’oro che si spicca
dal fondo oscuro e liquefatta cola
nel corridoio dei carrubi ormai
ischeletriti, così pure noi
persone separate per lo sguardo
d’un altro? E’ poca cosa la parola,
poca cosa lo spazio in questi crudi
noviluni annebbiati: ciò che manca,
e che ci torce il cuore e qui m’attarda
tra gli alberi ad attenderti, è un perduto
senso, o il fuoco, se vuoi, che a terra stampi,
figure parallele, ombre concordi,
aste di un sol quadrante i nuovi tronchi
delle radure e colmi anche le cave
ceppaie, nido alle formiche. Troppo
straziato è il bosco umano, troppo sorda
quella voce perenne, troppo ansioso
lo squarcio che si sbiocca sui nevati
gioghi di Lunigiana. La tua forma
passò di qui, si riposò sul riano
tra le nasse atterrate, poi si sciolse
come un sospiro, intorno – e ivi non era
l’orror che fiotta, in te la luce ancora
trovava luce, oggi non più che al giorno
primo già annotta.
giovedì 18 agosto 2016
prode pure
INVOLO
Per amare derive a prode pure
parole involo, ed anche per maree
d’affranto: perchè – da scorie sture –
alla Dolle un dì lemma d’incanto
qui rifiorirà. Nel vento d'arselle
da chiaro volo è ora il guardare
verso l'assolo di spalle passare
l'essere gabbiano in volo regale
e tu a menar mano all'ala carnale.
G. Nigretti da Derive maree 2016
Per amare derive a prode pure
parole involo, ed anche per maree
d’affranto: perchè – da scorie sture –
alla Dolle un dì lemma d’incanto
qui rifiorirà. Nel vento d'arselle
da chiaro volo è ora il guardare
verso l'assolo di spalle passare
l'essere gabbiano in volo regale
e tu a menar mano all'ala carnale.
lunedì 8 agosto 2016
stelle fallite
MES PETITES AMOUREUSES di Arthur Rimbaud
Un hydrolat lacrymal lave
Les cieux vert-chou :
Sous l'arbre tendronnier qui bave,
Vos caoutchoucs
Blancs de lunes particulières
Aux pialats ronds,
Entrechoquez vos genouillères
Mes laiderons !
Nous nous aimions à cette époque,
Bleu laideron !
On mangeait des oeufs à la coque
Et du mouron !
Un soir, tu me sacras poète
Blond laideron :
Descends ici, que je te fouette
En mon giron;
J'ai dégueulé ta bandoline,
Noir laideron ;
Tu couperais ma mandoline
Au fil du front.
Pouah ! mes salives desséchées,
Roux laideron
Infectent encor les tranchées
De ton sein rond !
Ô mes petites amoureuses,
Que je vous hais !
Plaquez de fouffes douloureuses
Vos tétons laids !
Piétinez mes vieilles terrines
De sentiments;
Hop donc ! Soyez-moi ballerines
Pour un moment !
Vos omoplates se déboîtent,
Ô mes amours !
Une étoile à vos reins qui boitent,
Tournez vos tours !
Et c'est pourtant pour ces éclanches
Que j'ai rimé !
Je voudrais vous casser les hanches
D'avoir aimé !
Fade amas d'étoiles ratées,
Comblez les coins !
− Vous crèverez en Dieu, bâtées
D'ignobles soins !
Sous les lunes particulières
Aux pialats ronds,
Entrechoquez vos genouillères,
Mes laiderons.
LE MIE PICCOLE INNAMORATE
Un idrolato lacrimale lava
i cieli verde-cavolo:
sotto l'albero gemmato che sbava,
i vostri caucciù.
Bianche di lune particolari
dalle eminenze tonde,
cozzate le vostre ginocchiere!
mie bruttone!
Ci amavamo a quei tempi,
bruttona blu!
mangiavamo uova alla coque
e mangime!
Una sera mi consacrasti poeta,
bruttona bionda:
vieni giù qua, che ti frusti
sul mio grembo;
Ho vomitato la tua brillantina,
bruttona nera;
tu taglieresti il mio mandolino
al filo della fronte.
Puah! le mie salive disseccate,
bruttona rossa,
infettano ancora le trincee
del tuo seno tondo!
Oh mie piccole innamorate,
quanto vi odio!
prendete a pugni dolorosi
i vostri laidi tettoni!
Calpestate le mie vecchie terrine
di sentimento;
- Hop là! siatemi ballerine
per un momento!...
Le vostre scapole si dislocano,
Oh amori miei!
una stella alle vostre reni che traballano.
Ballate i vostri girotondi!
E tuttavia è per costate simili
che io ho rimato!
Vorrei spezzarvi i fianchi
per aver amato!
Ammasso insulso di stelle fallite,
riempite gli angoli!
- Creperete in Dio, sotto il basto
di ignobili cure!
Sotto le lune particolari
dalle eminenze tonde,
cozzate le vostre ginocchiere,
mie bruttone!
sabato 30 luglio 2016
d'oro e miele
DAL MARE MUTO
Ora che fra le onde non più ti porgo
di stelle d’oro e miele il bel dono
quel che spargo è solo questo suono:
– di sassi senza memoria di sale –
che dal mare muto e ora lontano
ancora accanto si slarga piano
all'eguale gorgo che non scorgo
sullo scoglio dalle scorie scosso
dove il naufragar serale albergo.
martedì 12 luglio 2016
un filare
LA BICICLETTA di G. Pascoli
Mi parve di scorgere un mare
dorato di tremule messi.
Un battito . . . Vidi un filare
di neri cipressi.
Mi parve di fendere il pianto
d'un lungo corteo di dolore.
Un palpito . . . M'erano accanto
le nozze e l'amore.
dlin . . . dlin . . .
II
Ancora echeggiavano i gridi
dell'innominabile folla;
che udivo stridire gli acrìdi
su l'umida zolla.
Mi disse parole sue brevi
qualcuno che arava nel piano:
tu, quando risposi, tenevi
la falce alla mano.
Io dissi un'alata parola,
fuggevole vergine, a te;
la intese una vecchia che sola
parlava con sè.
dlin . . . dlin . . .
III
Mia terra, mia labile strada,
sei tu che trascorri o son io ?
Che importa? Ch'io venga o tu vada,
non è che un addio!
Ma bello è quest'impeto d'ala,
ma grata è l'ebbrezza del giorno.
Pur dolce è il riposo . . . Già cala
la notte: io ritorno.
La piccola lampada brilla
per mezzo all'oscura città.
Più lenta la piccola squilla
dà un palpito, e va. . .
dlin... dlin...
giovedì 30 giugno 2016
due sirene
L'ULTIMO VIAGGIO - LE SIRENE di G. Pascoli
Indi più lungi navigò, più triste.
E stando a poppa il vecchio Eroe guardava
scuro verso la terra de’ Ciclopi,
e vide dal cocuzzolo selvaggio
del monte, che in disparte era degli altri,
levarsi su nel roseo cielo un fumo,
tenue, leggiero, quale esce su l’alba
dal fuoco che al pastore arse la notte.
Ma i remiganti curvi sopra i remi
vedeano, sì, nel violaceo mare
lunghe tremare l’ombre dei Ciclopi
fermi sul lido come ispidi monti.
E il cuore intanto ad Odisseo vegliardo
squittiva dentro, come cane in sogno:
Il mio sogno non era altro che sogno;
e vento e fumo. Ma sol buono è il vero.
E gli sovvenne delle due Sirene.
C’era un prato di fiori in mezzo al mare.
Nella gran calma le ascoltò cantare:
Ferma la nave! Odi le due Sirene
ch’hanno la voce come è dolce il miele;
ché niuno passa su la nave nera
che non si fermi ad ascoltarci appena,
e non ci ascolta, che non goda al canto,
né se ne va senza saper più tanto:
ché noi sappiamo tutto quanto avviene
sopra la terra dove è tanta gente!
Gli sovveniva, e ripensò che Circe
gl’invidiasse ciò che solo è bello:
saper le cose. E ciò dovea la Maga
dalle molt’erbe, in mezzo alle sue belve.
Ma l’uomo eretto, ch’ha il pensier dal cielo,
dovea fermarsi, udire, anche se l’ossa
aveano poi da biancheggiar nel prato,
e raggrinzarsi intorno lor la pelle.
Passare ei non doveva oltre, se anco
gli si vietava riveder la moglie
e il caro figlio e la sua patria terra.
E ai vecchi curvi il vecchio Eroe parlò:
Uomini, andiamo a ciò che solo è bene:
a udire il canto delle due Sirene.
Io voglio udirlo, eretto su la nave,
né già legato con le funi ignave:
libero! alzando su la ciurma anela
la testa bianca come bianca vela;
e tutto quanto nella terra avviene
saper dal labbro delle due Sirene.
Disse, e ne punse ai remiganti il cuore,
che seduti coi remi battean l’acqua,
saper volendo ciò che avviene in terra:
se avea fruttato la sassosa vigna,
se la vacca avea fatto, se il vicino
aveva d’orzo più raccolto o meno,
e che facea la fida moglie allora,
se andava al fonte, se filava in casa.
venerdì 24 giugno 2016
a poco a poco
LA SERA DEL DI’ DI FESTA di G. Leopardi
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e questa sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, ché t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e già non sai né pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente,
che mi fece all’affanno. – A te la speme
nego, mi disse, anche la speme,; e d’altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. –
Questo dì fu solenne; or da’ trastulli
prendi riposo; e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non già ch’io speri,
al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in così verde etate! Ahi, per la via
odo non lunghe il solitario canto
dell’artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
il dì festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. Or dov’è il suono
di que’ popoli antichi? Or dov’è il grido
de’ nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l’armi e il fragorìo
che n’andò per la terra e l’oceàno?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco
già similmente mi stringeva il core.
venerdì 17 giugno 2016
vespro chiaro
17 GIUGNO
Squassavano rondoni neri
le terrazze bianche in giro
giocando il vespro chiaro
sulla Chjazze du Pèsce
i pescivendoli a voci rotte
pescavano gli ultimi omini
smenando belle sode sardelle e
le ultime audaci seppie novelle.
In punta di piedi sorrisi di fiato
sul limpido vetro disegnandoli
aspettavo il sempre tuo buono
dall’ombra in piazza di ritorno
senza fine atteso era già da quelli
che vendevi con felini e pecorini.
Eri il Pane Antico – sulla bianca terrazza
delle serene notti di colorblu lontananza.
Poi in nero rondone muto mutò
e in giro agile su ali raggiate girava
e per viuzze e palazzi bolli e serti portavi
di nere cozze pescate con corta lama aperte
e crude mangiate in quell’ultimo nostro incontro
primo negli occhi tuoi buoni e a nera morte umidi
e in questo stretto addio padre filiale m’affacciavo
e liberi canarini canterini volavano – dalla terrazza
oggi a nero asfaltata già dietro opachi vetri spenti
m’addormo, fra le ombre vuote di vino o di mute
passanti sotto, e sotto crolli le terrazze son crollate
disfatte da sigillate inferriate di bluasfalto ghiacciate.
(e polvere calida sfuma
il lontano corpo gravido
e dipinge i suoi lisci occhi neri
e veri e mai indiani e padani
e oggi la rimpiango
dentro il fango già rappreso ieri
colle ultime perle vere
che in socchiusi palmi accolse)
E il rondone nero andò – e alto veleggia ancora
e l’inferriata salda iniziò di serti secchi a sfiorire
e venne Pandora con Caino e tutta gramigna seminò
e venne Brillina con sacchi e velli e donò un regalino
e venne Dolorina con stille e stalle e lanciò un sassino
e venne Nanina con tacchi e santi e volle il librettino
e venne Ilioina con lingue e pianti e un pelino lasciò
e giunse Giugno con rovescio secco
e incerato bluvecchio addosso porta
e commosso indosso il sommo vuoto
dell’annoso giorno di anni già stecco.
G. Nigretti da Derive eretiche 2009
sabato 11 giugno 2016
passate cose
ALLA LUNA di Giacomo Leopardi
O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l'anno, sovra questo colle
Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l'etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri!
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