NEL SONNO passar per fosse d’uman discese e l'ombra d’albe persa vedere umana: – dell’ade vano orfea sposa che qui rimase tu non sei –. Fra soglie cave è la visione sul velo fatuo a buie caverne che le quiete spoglie confonde come la pietra sull’acque ferme un passo silente il sonno fende. G. Nigretti da Derive di pietra 2016
TU CHE ERI su terra d'oriente dormiente guerriero di guerra prigioniero quando non ero di carne ancora libero in assenza l’essere era? e se sussisteva – con voce vera alcuno lo dirà –: ora che son qui visco e straniero su questa galera d’anime già morte a volte scende un pietrisco d’acque che ci desta. G. Nigretti da Derive di pietra 2016
PAROLE (DOPO L’ESODO) DELL’ULTIMO DELLA MOGLIA di Giorgio Caproni Chi sia stato il primo, non è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo. Poi, uno dopo l’altro, tutti han preso la stessa via. Ora non c’è più nessuno. La mia casa è la sola abitata. Son vecchio. Che cosa mi trattengo a fare, quassù, dove tra breve forse nemmeno ci sarò più io a farmi compagnia? Meglio – lo so – è ch’io vada prima che me ne vada anch’io. Eppure, non mi risolvo. Resto. Mi lega l’erba. Il bosco. Il fiume. Anche se il fiume è appena un rumore ed un fresco dietro le foglie. La sera siedo su questo sasso, e aspetto. Aspetto non so che cosa, ma aspetto. Il sonno. La morte direi, se anch’essa – da un pezzo – già non se ne fosse andata da questi luoghi. Aspetto E ascolto. (L’acqua, da quanti milioni d’anni, l’acqua, ha questo suono sulle sue pietre?) Mi sento perso nel tempo. Fuori dal tempo, forse. Ma sono con me stesso. Non voglio lasciar me stesso – uscire da me stesso come, la notte, dal sotterraneo il grillotalpa in cerca d’altro buio. Il trifoglio della città è troppo fitto. Io son già cieco. Ma qui vedo. Parlo. Qui dialogo. Io qui mi rispondo e ho il mio interlocutore. Non voglio murarlo nel silenzio sordo d’un frastuono senz’ombra d’anima. Di parole senza più anima. Certo (è il vento degli anni ch’entra nella mente e ne turba le foglie) a volte il cuore mi balza in gola se penso a quant’ho perso. A tutta la gaia consorteria di ieri. Agli abbracci. Gli schiaffi. Alle matte risate, la sera, all’osteria dietro alle donne. Alte da spaccar le vetrate. Ma non m’arrendo. Ancora non ho perso me stesso. Non sono, con me stesso, ancora solo. E solo quando sarò così solo da non aver più nemmeno me stesso per compagnia, allora prenderò anch’io la mia decisione. Staccherò dal muro la lanterna, un’alba, e dirò addio al vuoto. A passo a passo Scenderò nel vallone. Ma anche allora, in nome di che, e dove troverò un senso (che altri, pare, non han trovato), lasciato questo mio sasso?
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