mercoledì 25 marzo 2020

che cosa vuoi?

Hermes, Euridice e Orfeo - Museo archeologico nazionale di Napoli

PER L’ANDATO AMORE

fu lei quella che a lumi velata
nel fatuo umidore dell’albore
su vaga orma e con fioca mano
per l’andato amore lì mi voltò:
ed io volto a quel muto bel volto
a capo chino e con chiusa di mano
già franto le chiesi: che cosa vuoi?

e quell’accanto dell’ombra compagno
con curva mano disse: ” il buio vano”.

G. Nigretti da dello sguardo viandante, 2020


Poesia molto bella, che reinterpreta il mito di Orfeo, spingendo lo sguardo sul destino, l’amore e la morte.

Struttura compositiva - I primi 3 vv. inizianti con la bella inversione Fu Lei centrano la figura di Euridice, che nel verso 4 induce Orfeo a volgersi indietro: lì mi voltò. La volontà di non tornare alla vita proviene da Euridice. I successivi vv. 5, 6, 7, hanno come soggetto Ed io, Orfeo; gli ultimi due versi, riferentesi all’accanto dell’ombra compagno (con bell’iperbato), indicano Hermes.
Dunque, lo spazio che occupano i personaggi, così come appaiono allineati sul bassorilievo, è: 4+3+2, con prevalenza conferita ad Euridice, l’ombra che non vuole tornare corpo d’amata. 

Descrizione - Ella appare nell’oscurità (a lumi velata), avvolta nelle brume silenziose e roride del regno dei morti, orma fioca di un’ombra che si spegne, con una mano posata sulla spalla di Orfeo, mentre l’altra sta abbandonata e raccolta. È lei che fa voltare (il latino respicere) il capo ad Orfeo.
Lei non si fa passivamente condurre da Hermes verso la luce; ormai, murata nell’oblio e nell’abbandono, ha accolto in sé il vuoto e il silenzio perenne e si nega all’amato. (Rilke: e non pensava all’uomo che era innanzi / non al cammino che saliva ai vivi).
Orfeo le si rivolge domandandole, con gesto interrogativo della mano, cosa voglia. Lei, dimentica del suo passato felice nell’amore, non intende tornare ad una vita che si sarebbe conclusa con un’altra morte. Le fitte allitterazioni della O, quasi un “ingorgo” vocalico, incombono sulla scena, apportando sensi enigmatici e sospesi, mentre A ed E portano morbidezze allusive.

Riflessione - Gli elementi presenti sono tutti corporei, anche se per Euridice si parla di un’inattingibile ombra: la mano (ripetuta 3 volte), il capo, il volto. Gli aggettivi che accompagnano i nomi sono incisivi ed essenziali: fioca, curva mano, muto bel volto, capo chino
Il buio che sommerge il tutto è vano, vuoto, cavo e silente. Al di là dell’intriso umidore, non ci sono altre sensazioni: l’oscurità e il vuoto impediscono percezioni visive e uditive. Le emozioni sono tutte interiori: Orfeo è franto, chiuso nel disperato gesto di richiamare in vita l’andato amore.
Ma il destino è più forte della morte, un’altra possibilità di vita è sbarrata, perché, come la prima, passerebbe ineluttabilmente per la strettoia del morire. Inutile far ripetere l’eterno ritorno.

Interpretazione - Il punto di vista espresso nella poesia rappresenta una torsione nello sguardo rispetto alla millenaria interpretazione del mito di Orfeo, che lo vede infedele al patto con gli dei di riavere Euridice impegnandosi a non voltarsi indietro.
Di fronte al groppo irriducibile della morte, che neanche la pietà degli dei può sbrogliare, un più moderno approccio si interroga sulla plausibilità del recupero di ciò che è ormai passato, e qui, di una seconda opportunità sulla terra, solo per amore.
Per questo Orfeo si volge ad Euridice e il suo silenzio è una risposta di morte: per bocca del messaggero degli dei (il dio dei viaggi e del lontano annunzio) il suo comportamento sancisce la volontà di restare negli inferi. Così l’ombra resta ombra, negata alla vita.
Per lei resteranno ad Orfeo, sulla terra, solo il pianto, il canto, la poesia.

era in se stessa, e il suo dono di morte / le dava una pienezza (Rilke)
Ornella Cazzador

mercoledì 11 marzo 2020

su barche di carta

DAL MUTO MORIRE

sul pelago confine e senza un lemma 
è qui giunto e svelto sta già andando 
per voce cercare in valle d’incanto o
su terre dove il sole non è spento 
dal muto morire del giorno stanco
quando dall’ade l’inverata appare
a chi da naufrago torna a maree: 

così è l’orfeo che a derive porta 
parole pesanti su barche di carta.

G. Nigretti da Sul confine pesante 2018


La poesia DAL MUTO MORIRE è una summa nella quale convergono i temi e i motivi che permeano la produzione di Nigretti. Sono presenti il naufragio, il dolore, la perdita, riletti con la lente del mito di Orfeo, che si intrecciano con l’aspirazione alla poesia, il cui slancio, salvifico, è rifratto nell’impalpabile, sfuggente e irrisoria, parola di carta.

La lirica ci porta ai confini estremi del mare, dove il naufrago è giunto, solo, atterrito e muto, dopo aver lottato con le insidie del mare periglioso. Egli subito abbandona l’onda crestata di schiume paurose e posa lo sguardo su terre sconosciute, su paesaggi inabitati dai quali risalire a orme di vita, e decifrare una rotta da immaginari portolani. Andare “su terre dove il sole non è spento” è alleviare la stanchezza mortale dell’urto impari con gli elementi, la paura, il senso della fine. 

Il suo viaggio è come quello di Orfeo, che attraversa il silenzio degli inferi per riportare alla luce la parola che salva.

Ma egli non trova che l’ombra del vero e il silente simulacro di “lei così amata”, che ormai ha lasciato per sempre le dimensioni umane del tempo e del sentimento (Ormai non era più la donna bionda… , Rilke). Il suo ritorno nell’ade è per Orfeo varcare il limite del dolore e del pianto perenne, condannato, senza amore, a una “vita vicaria”, insondabile destino toccato in sorte all’uomo.

Simile alla parabola enunciata nel mito è l’esperienza del poeta: con un carico di parole divenute “pesanti”, su un vascello fantasma, il naufrago torna alle derive sconfinate della voce di carta. 

E la voce è l’anima (Aristotele, De anima) che chiede salvezza. 


Ornella Cazzador

venerdì 14 febbraio 2020

quello che ci resta


DELL’ANDATO GRAN BAZAR

c’è sempre una perfetta confusione
nella mente di ogni evacuato umano – 
che il caos del creato pare eguale 
al mercato di Prato della Valle:
con i fiori già recisi sui banconi
come carne andata di nude parute 
con parole cadute sopra i tavoli

del poeta antiquario: “venghino bei siori
vendo quello che ci resta del gran marcito

G. Nigretti da Amare Derive di carne su carte, 2019

 “Prato della Valle”: grande piazza di Padova

domenica 9 febbraio 2020

come di rana


NOTTURNA

tutta in corpo qui mi venne
           la notte
           di quelle a stelle
           e finestre rotte

digiuna cadde
           pure la mezza luna
                                   fra verghe urina e
                                   vetro
                                   vuoto e larve ingoiava

           con alito a fiori
           d’asfalto
                       diluendo parole
                       e amore
di donna ruppe in gola
ogni stella

cadente sempre intera
      mondana si appese
              drio la meridiana
                    con ascelle pelose
                           e labbra umettate

bava sulla poesia colava
            (come di rana notturna puttana)
                           pensai a un bruco
                           di nostalgia
ma era gialla saliva
                           d’ipocrisia.


G. Nigretti da Derive di notte 2009/10

venerdì 24 gennaio 2020

senza memoria

DAL TALAMO MARE

ora che fra le onde non più ti porgo
nel golfo vano il gran dono di miele
quello che ti spargo è questo suono
dal ramingo talamo del mare e
senza memoria di piaga in mano – 
sempre si slarga sul gramo ondare:
come il gorgo largo che non scorgo

dallo scoglio dalle scorie scosso
dove a sera naufragando albergo.

G. Nigretti da Fra le scorie, 2016


domenica 15 dicembre 2019

per la sirena

DI COLME MEMORIE

senza amore un fiore riapre il cuore
sull’arso pietrame fra ossa di mare
è bianco al sole sasso della sera
dove l’ombra nello sguardo riaffiora
danzando fra le plastiche di scorie
riportate da onde come memorie:
sulle carte di smagliate frontiere – 

langue e sanguina la mano protesa 
per la sirena che all’amo s’è presa.

G. Nigretti da Derive di ombre 2018/19

venerdì 15 novembre 2019

muti e gelidi


META DELLA VITA di Friedrich Holderlin

Con gialle pere si curva
E folto di rose selvagge
Il paese nel lago,
Voi nobili cigni,
Ed ebbri di baci
Immergete voi il capo
Nell’acqua limpida e sacra.

Ahimè, quando viene l’inverno,
Dove trovo i fiori e dove
Il lume del sole
E l’ombra della terra?
Muti e gelidi stanno
I muri, al vento
Stridono le banderuole.

domenica 3 novembre 2019

tacita sposa


CONCLUDENDO di Derek Walcott

Vivo sull’acqua,
solo. Senza moglie né figli.
Ho circumnavigato ogni possibilità
per arrivare a questo:

una piccola casa su acqua grigia,
con le finestre sempre spalancate
al mare stantio. Certe cose non le scegliamo noi,

ma siamo quello che abbiamo fatto.
Soffriamo, gli anni passano, lasciamo
tante cose per la via, fuorché il bisogno

di fardelli. L’amore è una pietra
che si è posata sul fondo del mare
sotto acqua grigia. Ora, non chiedo nulla

alla poesia, se non vero sentire:
non pietà, non fama, non sollievo. Tacita sposa,
noi possiamo sederci a guardare acqua grigia,

e in una vita che trabocca
di mediocrità e rifiuti
vivere come rocce.

Scorderò di sentire,
scorderò il mio dono. È più grande e duro,
questo, di ciò che là passa per vita.

sabato 2 novembre 2019

oltre lo sguardo


I MORTI di E. Montale

Il mare che si frange sull'opposta     
riva vi leva un nembo che spumeggia
finché la piana lo riassorbe. Quivi
gettammo un dì su la ferrigna costa,
ansante più del pelago la nostra
speranza! - e il gorgo sterile verdeggia
come ai dì che ci videro fra i vivi.

Or che aquilone spiana il groppo torbido
delle salse correnti e le rivolge
d'onde trassero, attorno alcuno appende
ai rami cedui reti dilunganti
sul viale che discende
oltre lo sguardo;
reti stinte che asciuga il tocco tardo
e freddo della luce; e sopra queste
denso il cristallo dell'azzurro palpebra
e precipita a un arco d'orizzonte
flagellato.
                Più d'alga che trascini
il ribollio che a noi si scopre, muove
tale sosta la nostra vita: turbina
quanto in noi rassegnato a' suoi confini
risté un giorno; tra i fili che congiungono
un ramo all'altro si dibatte il cuore
come la gallinella
di mare che s'insacca tra le maglie;
e immobili e vaganti ci ritiene
una fissità gelida.
                          Così
forse anche ai morti è tolto ogni riposo
nelle zolle: una forza indi li tragge
spietata più del vivere, ed attorno,
larve rimorse dai ricordi umani,
li volge fino a queste spiagge, fiati
senza materia o voce
traditi dalla tenebra; ed i mozzi
loro voli ci sfiorano pur ora
da noi divisi appena e nel crivello
del mare si sommergono...

domenica 27 ottobre 2019

orlo


ORLO di Sylvia Plath

La donna è la perfezione.
Il suo morto
Corpo ha il sorriso del compimento,
un’illusione di greca necessità
scorre lungo i drappeggi della sua toga,
i suoi nudi
piedi sembran dire:
abbiamo tanto camminato, è finita.
Si sono rannicchiati i morti infanti ciascuno
come un bianco serpente a una delle due piccole
tazze del latte, ora vuote.
Lei li ha riavvolti
Dentro il suo corpo come petali
di una rosa richiusa quando il giardino
s’intorpidisce e sanguinano odori
dalle dolci, profonde gole del fiore della notte.
Niente di cui rattristarsi ha la luna
che guarda dal suo cappuccio d’osso.
A certe cose è ormai abituata.
Crepitano, si tendono le sue macchie nere.

Questa è  poesia che scrisse Sylvia Plath, dopo aver preparato la colazione per i suoi bambini, prima di morire con la testa nel forno.

giovedì 17 ottobre 2019

menadi danzanti


A BUIO VOLO

da questa memoria di aria
sempre con occhi riappare 
e lenta in afra nebbia scende 
e in muto tempo frana la mente 
piaga di ore a sorte già rafferme 
di vuoto tutte colme stanno

sul bordo di questo curvo stame 
ombre brune spingono anni
distanti – da sementi a sciame 
lasciate ai piedi ameni
di menadi danzanti

lungo la notte nulla 
a buio volo di luna 
una sirena che urla
rimbomba domestici camposanti.

G. Nigretti da Derive quiete, 2010/11

venerdì 27 settembre 2019

‘o può ‘vedè?

È NOTTE di Edoardo de Filippo

Tutt’è silenzio dint’a sta nuttata
nun se sente nu passo ‘e cammenà.
Nu ventariello tutta na serata
pare ca me vuleva accarezzà.
E finalmente chiagno! Tu non vide,
tu staje luntano, comme ‘o può ‘vedè?
Però t’ ‘o ddico pecchè tu me cride
e si me cride, chiagne nzieme a me!
Scenne stu chianto lento, doce doce,
nun aizo na mano p’ ‘asciuttà.
Io strillo pe’ te fa’sentì sta voce,
ma tu non puo’ sentì… c’allùcco a ffa’?
Tutt’è silenzio… ncielo quanta stelle!
affaccete, tu pure ‘e ppuo’ vedè:
songo a migliare, e saie pecchè so’ belle?
Pecchè stanno luntano, comm’ ‘a tte!

venerdì 20 settembre 2019

solatie

L'OMBRA DELLA VITA di Marta Celio

alla de-riva
un bianco fermarsi
             nere ciminiere

casupole sorde
absidi solatie
e lento migrare

gabbiani in nuce e
voci di te

angolo ossuto

pagina piegata per sempre
dall'ombra della vita

mercoledì 11 settembre 2019

birre


Risultati immagini per dolle

L’ICONICA BELLEZZA

è una bionda birra che spumeggia
sullo scabro del vivente malfermo
in pieno sbando per la ferma icona:
che di notte si abbatte sulle carte – e
la mano come il latte dell’albore
borbotta sul bianco dense parole – e
la cosa sempre bella è che ride

dal vetro di baldo malto lontano
bevendo al gran boccale nella mano.

G. Nigretti da Derive della mano, 2019


Vedo dal titolo dell'oggetto: birre, e capisco che ci sono birre e birre. Quelle ordinarie di tutti i giorni e quelle funzionali a rappresentare una metafora. Che la birra sia molto cantata dai poeti è un fatto noto, (come il vino del resto), ma le due bevande hanno molte differenze, sia per i contesti, sia per le ricadute (emotive, psicologiche) sui soggetti coinvolti.
La birra - per il suo gusto, per come si presenta e la si beve - (Bukowski la definisce "amante continua") ha suscitato l'interesse dei poeti Simbolisti, di Rilke, Eliot, Dylan Thomas, solo per citarne alcuni. Anne Sexton dice: Dio ha una voce bionda, morbida e piena come la birra.
Qui, la bionda birra (con allitterazione della B, che va a caricare l'effetto che produce) SPUMEGGIA. Verbo fonosimbolico, che assume forza espressiva e vitale, oltre che valore estetico, in quanto presenta una cosa bella e seducente. Ciò produce sul vivente malfermo (di cui cogliamo una forma "scabra", e lo sappiamo in pieno sbando) uno stordimento, uno spiazzamento. 
L'icona è ferma. L'opposizione ferma/malfermo rende bene una situazione dissimmetrica tra la stabile icona e il vivente, che è vacillante. La ferma icona, nella notte, si abbatte (= arriva con la forza di un uragano) sulle carte, cioè sulle pagine su cui scrivere poesia, quella che permetterebbe al poeta di vivere almeno una parvenza di vita e "di sciogliere il canto del suo abbandono" (Ungaretti).
La sua mano è lattea come il bianco mattino (bianco è anche il colore dell'assenza) e bor-botta, (vivace fonosimbolismo), cioè arriva solo a borbottare, incapace di articolare su quel bianco foglio le "dense parole" che vorrebbe.
Ma l'immagine (l'iconica bellezza), che il poeta ha davanti, altera e superba, chiusa in sé, sorride al poeta, attraverso il vetro, bevendo dal gran boccale. Lui la vede solo riflessa: è un gioco di sguardi, riflessi da un vetro? Gioco di apparenze; un ritrarsi, un nascondersi? Lei marca la sua distanza? È intenzionata a farlo soffrire? Che ci siano elementi di sofferenza è evidente da: malfermo, pieno sbando, si abbatte, borbotta... Lei è "lontana" (baldo malto lontano).
Concludo la parafrasi così: al poeta mancano le parole per esprimere ciò che prova verso quell'iconica bellezza, che lo ha irretito (il suo seducente spumeggiare) e sbatte le ali sul foglio dove vorrebbe cantare/poetare riuscendo a vergare solo pochi e disarticolati segni. Lei resta impassibile e sorniona: "ride" e lo guarda attraverso il vetro del bicchiere.
Dylan Thomas, il visionario e maledetto poeta gallese, raccontando a un'amica alcuni momenti della sua vita, ricordava quando andava nelle Uplands vicino casa ed entrava in taverna a bere "una, forse due pinte di birra".
La prima frase del poeta suona così: I liked the taste of beer... Amavo il gusto della birra, la sua schiuma bianca, la sua profonda brillantezza ramata, il mondo che sorgeva attraverso le pareti brune e umide del vetro...
 Ornella Cazzador


mercoledì 28 agosto 2019

la bellezza


COME UN’ONDA SUL GRANO 

c’era una volta a marea 
e ora fra onde non appare – e
quella che ci brezza non è
nell’onda la bellezza – è
la noia: come un’onda che
sbalza e la mano ricade
dalla già densa scogliera

di carta – dove a fatica risale
per onde parole da seminare.

G. Nigretti da Derive della mano, 2019



La poesia è molto ermetica. Ma è "una foresta di simboli" per dirla con Baudelaire (che però si riferisce alla natura).
È intessuta di fili che convergono, si riprendono, e divergono, a rappresentare uno squarcio sulle concezioni del poeta, ed anche uno stato d'animo - attuale -. Forse è contingente, legato a un momento nero, ma forse è il suo mood costitutivo.

Queste intense rappresentazioni hanno a che fare con la poesia e con la vita e per questo assurgono a riflessione sulla condizione dell'umana esistenza, stretta tra il desiderio di vita e ciò che le si oppone, in termine di mancanza, penuria, negazione.

Le simbologie emergenti fanno capo a due mondi paralleli, riferentesi al mare e alla terra. Del mare si dice: a marea, onde, per onde, dunque è presente la Natura, la forza, la bellezza della Natura (nell'onda la bellezza) indipendentemente dalla volontà dell'uomo.
Della terra e dell'uomo invece si riferiscono due momenti legati al lavoro umano: brezzare, seminare. La forma: ci brezza si pone a metà fra le due realtà evocate, con esiti di ambiguità che gettano un ponte di senso tra le cose che il poeta vuol dire. 

È la noia il punto focale. Il poeta è preda della noia, che opprime il cuore, offusca la mente, fiacca e tarpa le ali. Per suo effetto, la mano ricade, a fatica risale, nel gesto di riempire la pagina bianca, seminando parole. 
Questo è il gesto poetico, la metafora della poesia, come semina. Dunque un poeta ara e semina il suo terreno, vaglia il grano, separa il grano dalla pula... fa un lavoro meticoloso di perfezione. Lavora le parole. E si affatica sul verso per trovarne le giuste sonorità, per intrecciare suoni e sensi, per catturare quei significati che gli urgono dentro, esprimere il non detto con una comparazione, una analogia, o una figura retorica. 

Ma se si affaccia un momento di sofferenza, di tedio, è difficile vivere e poetare. La già densa scogliera di carta diventa più dura, impossibile. Che sia di carta, da una parte allude al supporto materico della scrittura, dall'altra alla sua precarietà ed evanescenza. Che poi la scrittura sia spesso resa difficoltosa e il foglio resta bianco e vi si riflette solo la bianca luce della lampada, lo dice anche Mallarmé in Brise marine: Ne' il chiaror solitario della mia lampada / sul foglio vuoto che il candor difende...

La noia è qui evocata con una similitudine: come un'onda che sbalza... Essa ha la potenza dell'onda di Hokusai, che mette in luce la forza primigenia della natura e la sua minacciosa bellezza, di fronte alla fragilità dell'essere umano, sbattuto tra gli scogli e le tempeste. Stremato e inerme, come può opporsi a questo destino? 
Baudelaire (in cui angoscia e noia trovano un interprete moderno) dà una sua visione nella bellissima  Elevazione (Spleen et ideal. Les fleurs du Mal):

........... 
Dietro di sé le noie, i vasti orrori
Gravanti sulla brumosa vita, felice
Chi con robuste ali saprà
Slanciarsi verso campi di luce e sereni
E ogni mattina, come le allodole, s'alza
Nei pensieri con libertà nel cielo
E si libra ben alto sulla vita e non fa
Fatica a intendere i fiori e le altre cose mute.
(Traduzione di G. Raboni)
Ornella Cazzador