venerdì 31 marzo 2017

per un dì

D’ANDATO MARZO

è qui passato un nugolo di ore e
di foglie morte da quel passare
la luce d’assorte soglie –:
con lo sguardo dell’andare, o
con ferma parola di stare
in spenta forra ad aspettare
d’andato marzo primavera

e quel che ora ci resta è la sola
poesiola, per un dì che s’invola.

G. Nigretti da Derive di luce 2017

giovedì 30 marzo 2017

o mondo


"CHE IL PARLAR DELLA TERRA INTENDA ALMENO"
GIORNATA MONDIALE DELLA POESIA
Padova Zubar di Palazzo Zukermann
ATTORNO

se non fossi tu, oòh mondo! di verso
tondo – ma di lungo eguale ad un rigo:
sempre al tuo brigo non gireremmo
attorno. Forse per librarci appena 
da guitta rima che c’incatena
sempre di schiena per derive andiamo 
a fondo – se ossi rimando di nostri ali 

nel già rotondo rimenare dei passi
cali a carte menando massi reali.

G. Nigretti da Derive di carta 2015


LUNA ESTIVA PIENA

La Pienaluna disse al Poeta:
Nell’oscuro del mondo la voce mia è di sole
la tua è un lacero sudario per parole morte 
un desolato calvario di sillabe storte…
e per aver luce la bolletta devi pagare

Il Poeta rispose alla Pienaluna:
Nel silenzio d’ogni novilunio porto la voce
l’urlo muto di chi cercandoti è già caduto
su questo oscuro andare di orme sole…
e con te e le parole saldo metà bolletta

G. Nigretti da Derive di aria 2012


giovedì 23 marzo 2017

assetato

PASSEGGIATA di Richard Berengarten

... ora che cade la sera ...

Re sole, di gote roseo, conio sovrano del giorno,
mi tocchi, e la mia pelle tramuta in cornea,
il mio dorso in nervo ottico, il mio corpo trema
metà abbagliato dalla pozza d’oro che riversi
su questo mare e in questa città, e sono accecato.
Qui un tempo s’ergevano – e so che ancora s’ergono –
filari di case e strade di un’altra città,
non questa che hai totalmente trasformato.

Camminiamo lungo il molo. La notte
barche di pescatori si accingono a partire
motori sbuffanti, luci di paraffina nelle prue,
e tutta la città è fuori per la passeggiata,
amanti abbracciati, e ragazzi spavaldi,
madri e padri, bambini che mangiano il gelato,
anziani che guardano dai tavolini dei caffè sui marciapiedi,
e oscuranti colline che si muovono strette, come armenti.

Dolce bagliore della sera, spiegata su colline e baia,
ora il tuo braccio sfiora il mio, come incidentalmente
il tocco di questa giovane donna che mi cammina a lato
coi fianchi pesanti, i passi piccoli e le movenze sinuose
i capelli corvini ravvolti e il suo sorriso bruno oliva.
Ti bevo, luce scintillante, come vino, come musica,
come i suoi avi ti bevvero per millenni.

Città porosa, il nome della donna è Elefterìa,
e sebbene le tue cicatrici siano chiazze grigie nei suoi occhi,
in quest’ora in cui la luce e le sue inflessioni
giocano sottilmente sul suo viso come voci e canti,

suo è l’antico diritto di calpestare questo molo
come strumento e guardiano della tua luce
raccogliendolo nelle coppe delle sue pupille,
e sua è la preziosa libertà di guidarti, come fa una ballerina.

Amata sera, luce antica di millenni,
voce limpida di cantante, amabile come questa donna,
come non posso adorare la grazia che imprimi
su questa città e questa gente, un calco
che modella tutto ciò che tocca, il mondo intero?

Se non tuo cittadino, son diventato tuo schiavo.
E assetato dal berti tutta, riempirei
ogni poro col tuo splendore, sua libertà.

lunedì 20 marzo 2017

cava parusia


I SANDALI

Furono presi per l’andare solo e
di cava parusia al baio mare:
ma ebbero verbo nel latteo buio 
di quella corsia di chirurgia; 
e là – pur se corto di voce e carte
fu eguale a quell’aereo tumulto
dell’orfeo stolto al paruto volto

di ieri, già lumera d’amor straniero
come l'astro spento che vaga in cielo.

G. Nigretti da Derive di luce 2017

giovedì 16 marzo 2017

al limbo


LA VITA IN VERSI DI G. Giudici

Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.

Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, nè potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.

Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli astanti s’affacciano

al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.

Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.

martedì 7 marzo 2017

la vita è


SUL BIANCO PIANO

Quando, senza gesto d’alcuna mano,
per faccende già di carta noi saremo 
sfaccendati, e quella fiamma che muta
danza – lungo la combusta corsia
bianca – senza screzio e né armonia:
forse allora la nostra reale forma 
che ci condanna, d’ombra sarà orma.

La vita è una donna che danza” 
e la Morte il cavaliere che guarda.

G. Nigretti da Derive di carta 2015

mercoledì 1 marzo 2017

fu così


ACCELERATO  di E. Montale

Fu così, com’è il brivido
pungente che trascorre
i sobborghi e solleva
alle aste delle torri
la cenere del giorno,
com’è il soffio
piovorno che ripete
tra le sbarre l’assalto
ai salici reclini -
fu così e fu tumulto nella dura
oscurità che rompe
qualche foro d’azzurro finché lenta
appaia la ninfale
Entella che sommessa
rifluisce dai cieli dell’infanzia
oltre il futuro -
poi vennero altri liti, mutò il vento,
crebbe il bucato ai fili, uomini ancora
uscirono all’aperto, nuovi nidi
turbarono le gronde -
fu così,
rispondi?

martedì 14 febbraio 2017

orfea


NEL SONNO

passar per fosse d’uman discese
e l'ombra d’albe persa vedere
umana: – dell’ade vano orfea
sposa che qui rimase tu non sei –.
Fra soglie cave è la visione
sul velo fatuo a buie caverne
che le quiete spoglie confonde

come la pietra sull’acque ferme
un passo silente il sonno fende.

G. Nigretti da Derive di pietra 2016

venerdì 10 febbraio 2017

d'acque


TU CHE ERI

su terra d'oriente dormiente
guerriero di guerra prigioniero
quando non ero di carne ancora
libero in assenza l’essere era?
e se sussisteva – con voce vera 
alcuno lo dirà –: ora che son qui 
visco e straniero su questa galera

d’anime già morte a volte scende
un pietrisco d’acque che ci desta.

G. Nigretti da Derive di pietra 2016

domenica 5 febbraio 2017

questo mio sasso

PAROLE (DOPO L’ESODO) DELL’ULTIMO DELLA MOGLIA
di Giorgio Caproni

Chi sia stato il primo, non
è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti
han preso la stessa via.
Ora non c’è più nessuno.

La mia
casa è la sola
abitata.

Son vecchio.
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?

Meglio – lo so – è ch’io vada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.

La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte direi, se anch’essa
– da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.

Aspetto
E ascolto.

(L’acqua,
da quanti milioni d’anni, l’acqua,
ha questo suono
sulle sue pietre?)

Mi sento
perso nel tempo.
Fuori
dal tempo, forse.

Ma sono
con me stesso. Non voglio
lasciar me stesso – uscire
da me stesso come,
la notte, dal sotterraneo
il grillotalpa in cerca
d’altro buio.

Il trifoglio
della città è troppo
fitto. Io son già cieco.
Ma qui vedo. Parlo.
Qui dialogo. Io
qui mi rispondo e ho il mio
interlocutore. Non voglio
murarlo nel silenzio sordo
d’un frastuono senz’ombra
d’anima. Di parole
senza più anima.

Certo
(è il vento degli anni ch’entra
nella mente e ne turba
le foglie) a volte
il cuore mi balza in gola se penso
a quant’ho perso. A tutta
la gaia consorteria
di ieri. Agli abbracci. Gli schiaffi.
Alle matte risate,
la sera, all’osteria
dietro alle donne. Alte
da spaccar le vetrate.

Ma non m’arrendo. Ancora
non ho perso me stesso.
Non sono, con me stesso,
ancora solo.

E solo
quando sarò così solo
da non aver più nemmeno
me stesso per compagnia,
allora prenderò anch’io la mia
decisione.

Staccherò
dal muro la lanterna,
un’alba, e dirò addio al vuoto.

A passo a passo
Scenderò nel vallone.

Ma anche allora, in nome
di che, e dove
troverò un senso (che altri,
pare, non han trovato),
lasciato questo mio sasso?

mercoledì 11 gennaio 2017

soto que atrae


ORILLAS DE TU VIENTRE di Miguel Hernández

¿Qué exaltaré en la tierra que no sea algo tuyo?
A mi lecho de ausente me echo como a una cruz
de solitarias lunas del deseo, y exalto la orilla de tu vientre.

Clavellina del valle que provocan tus piernas.
Granada que ha rasgado de plenitud su boca.
Trémula zarzamora suavemente dentada
donde vivo arrojado.

Arrojado y fugaz como el pez generoso,
ansioso de que el agua, la lenta acción del agua
lo devaste: sepulte su decisión eléctrica
de fértiles relámpagos.

Aún me estremece el choque primero de los dos;
cuando hicimos pedazos la luna a dentelladas,
impulsamos las sábanas a un abril de amapolas,
nos inspiraba el mar.

Soto que atrae, umbría de vello casi en llamas,
dentellada tenaz que siento en lo más hondo,
vertiginoso abismo que me recoge, loco
de la lúcida muerte.

Túnel por el que a ciegas me aferro a tus entrañas.
Recóndito lucero tras una madreselva
hacia donde la espuma se agolpa, arrebatada
del íntimo destino.

En ti tiene el oasis su más ansiado huerto:
el clavel y el jazmín se entrelazan, se ahogan.
De ti son tantos siglos de muerte, de locura
como te han sucedido.

Corazón de la tierra, centro del universo,
todo se atorbellina con afán de satélite
en torno a ti, pupila del sol que te entreabres
en la flor del manzano.

Ventana que da al mar, a una diáfana muerte
cada vez más profunda, más azul y anchurosa.
Su hálito de infinito propaga los espacios
entre tú y yo y el fuego.

Trágame, leve hoyo donde avanzo y me entierro.
La losa que me cubra sea tu vientre leve,
la madera tu carne, la bóveda tu ombligo,
la eternidad la orilla.

En ti me precipito como en la inmensidad
de un mediodía claro de sangre submarina,
mientras el delirante hoyo se hunde en el mar,
y el clamor se hace hombre.

Por ti logro en tu centro la libertad del astro.
En ti nos acoplamos como dos eslabones,
tú poseedora y yo. Y así somos cadena:
mortalmente abrazados.

domenica 1 gennaio 2017

deserti di occhi


DI ARDITI GIORNI 


gravido, è corsa gravosa parlare

quindi lemmi per squilli vi stilo
quando serpi spingono spilli
pendono pensieri privi di filo

su specchi deserti di occhi

e di voce, l’ombre vitree
di arditi giorni aleggiano

in oasi di piacere canino

dal vago cavo le varco e
verso scabbia pioggia e
arido d’amore declino

nostalgie di gerbido solco

penzolando zoppe rime
a infante seme sorrido

errando da nero migrante

nei vostri lacerati peluche
fugaci sostegni rammendo
dagli strappi rapidi passano

vuoti sciacalli riciclati

come vacche rumano fantasie nane e voi
di arditi giorni dimentiche
insieme sputate nere le ultime perle vere.


G. Nigretti da Derive eretiche 2009


mercoledì 28 dicembre 2016

nulla resta

DI FRONTE A MONTÀ

la vista non è quella alla Degas,

a zigzag con due assenti al bar:
è come quella al locale di Arles,
dal fondo tavolo frontale 
e di vacuo sodale umano; però
il sabato cielo è un po’ quello
di – nulla resta uguale – sopra il prato

di fritto e vino che la fiera porta

col sepolto vano di nostro andato.

G. Nigretti da Derive nel vento 2014

sabato 24 dicembre 2016

sogno


SOGNO di G. B. Marino

In sogno ancora (Amor, che puoi più farmi?)

gioco mi fai del tuo spietato impero.
Ecco colei, che già mi sparve, apparmi
in dolce atto vezzoso e lusinghiero.

Com’esser può che possa il sonno darmi

quel che ’n vigilia poi mi nega il vero?
Che mi conceda or tu quelche mostrarmi
non ardì mai l’adulator pensiero?

Ma se ben erro ed insensibil giaccio,

quanti oggetti più cari il senso formi
non vaglion l’ombra del’error ch’abbraccio.

Ahi, ben vegg’io che mentre in grembo a tormi

viene il riposo ed io gli dormo in braccio,
vegghia il mio incendio, e tu crudel non dormi.

giovedì 15 dicembre 2016

di mente







DI FRONTE

sta – ferma lì, senza fine eguale

a un fiore di pietra – nell’incolto
presente un’assenza che da sempre
non so mai se di fronte sorgiva
sia di reale ombra o di mente
uscita parvenza, che su carta
già fioriva – senz’alito di vita

su nebulo fondo il guardo si posa:

come bianco velo senza la sposa.

G. Nigretti da Derive di scorie 2016